sabato 15 aprile 2017

"Il pescatore di frottole", recensione di Alice Torreggiani

 «Se c’è un unico modo di fare le cose giuste e pochissimi per porre rimedio alle cantonate, ve ne sono tantissimi di sbagliare, e gli errori, si sa, sono molto, molto più divertenti». Errori, assurdità, voli di fantasia: sono questi gli elementi che contraddistinguono la raccolta di racconti di Claudia Maschio, Il pescatore di frottole




Si tratta di dodici racconti e due filastrocche assolutamente originali e contemporanei. Apparentemente molto diversi l’uno dall’altro, poiché attingono a diverse tradizioni fiabesche, sono in realtà uniti da un filo conduttore, che attraversa l’intera raccolta in modo inequivocabile. Il tema comune è quello della diversità e del suo valore positivo e generativo. È infatti produttrice di significati, mondi e storie; è un seme che, se curato, crea vita. Ad essa si oppone l’omologazione, la normalità, l’ordinario, una realtà grigia e spenta che viene sconfitta da quella variopinta e luminosa del diverso. Diversità è anche sinonimo di fantasia e creatività, tratti distintivi di questi racconti. Fantasia e creatività che non scaturiscono solo dall’autrice nell’atto di plasmare mondi e trame, ma anche dai personaggi stessi, che tessono in questo modo le vicende. Un esempio lampante è Il paese degli errori, in cui l’essere normali, il fare le cose giuste, è considerato pura follia.
Un altro importante nucleo narrativo è l’antitesi fra soggettività e realtà, un duello eterno tra ciò che dovrebbe essere oggettivo e ciò che invece è frutto di elaborazione e visione personale. Questo è lampante in La finestra dei sogni, che presenta al lettore un bambino perennemente perso nelle proprie fantasie.
L’immaginario a cui immediatamente si pensa è quello di Calvino, per i paradossi e l’assurdità delle storie, che però assumono una parvenza di normalità per la disinvoltura con cui i fatti fuori dall’ordinario vengono trattati. Anche Piumini è una presenza costante, e in qualche modo rassicurante, con i personaggi imperfetti ma meravigliosi e le storie strampalate che non per forza necessitano di una spiegazione logica.
La raccolta si apre con Il pescatore di frottole, racconto che segue lo schema classico della fiaba e che per questo è molto vicino a Tecia, Tecin e Tecion, anch’esso impostato secondo lo schema propperiano delle narrazioni fiabesche. Il numero tre è centrale, come spesso accade nelle storie per l’infanzia, e non solo: è un numero magico, il numero perfetto. Il numero dei figli del pescatore che tentano di ottenere in sposa la principessa del mare, il numero dei fratelli che litigano per l’eredità lasciata dal padre defunto. Il numero dei tentativi che servono per imparare dai propri sbagli e crescere, per diventare eroi e raggiungere il lieto fine.
In Pimpinoli, La corte del Tagliapietra e La fiaba più bella troviamo invece un’importante componente fantasy e un ampio dispiego di streghe, fate, incantesimi e abilità straordinarie. 
Pimpinoli è un bambino con naso, orecchie, occhi e bocca enormi e ha quindi il vantaggio di percepire in modo amplificato il mondo, ma lo svantaggio di essere diverso dagli altri. Il che, come questo libro insegna, non è affatto uno svantaggio. 
La seconda fiaba ha per protagonista Arianna, una bambina di Venezia che, durante i suoi vagabondaggi con il fidato Chronos, si imbatte in un magico pozzo in cui vive una strega, dalla quale sarà messa alla prova. 
La terza fiaba, invece, vede una ragazza dalle incredibili doti di narratrice alle prese con l’invidia di una vecchia.
Di tutt’altro tipo sono Il compleanno del signor Pomodoro e Mezzopieno e Mezzovuoto, due episodi legati a un unico immaginario narrativo, in cui gli oggetti della casa, e in particolare della cucina, prendono vita all’insaputa degli inquilini. Essi assumono tratti caratteriali ispirati a quelli puramente materiali e fisici; sono però in grado di sostituire perfettamente i personaggi umani, creando un loro mondo completo e autonomo. 
Similmente accade in Il pianeta degli orologi e Il malefico mastro Tempo, anch’essi parti di un’unica storia. Questa volta ad animarsi sono mille e mille tipi di orologi, che vivono su di un pianeta tutto loro, dove paradossalmente il tempo non scorre o, quando scorre, fa brutti scherzi. Anche qui, ogni personaggio si caratterizza a seconda del tipo di orologio che è. 
La leggenda della lettera P, invece,  è un racconto un po’ a sé stante, poiché i protagonisti non sono persone, né oggetti, bensì lettere dell’alfabeto, e la storia si basa su uno scambio di lettere che dà origine a equivoci nel creare le parole. Si approda così a un divertente gioco di creazione di vocaboli, che ricorda molto le tecniche di produzione di storie che Gianni Rodari descrive nella sua Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie. Si tratta di un processo altamente creativo e potenzialmente senza limiti, che stimola la fantasia dei bambini. E così il racconto diventa una sorta di trampolino di lancio per l’immaginazione del lettore, poiché gli offre la possibilità di continuare con questi atti di creazione. 
La lettera P annuiva piegando il capo. La C si avvicinò a lei e disse: “Non devi essere invidiosa. Sì, è vero, io sono nel cuore di tutti, e questo è importante. Ma tu sei nei pensieri di tutti e questo è altrettanto importante. E poi senza di te non ci sarebbero la pace, i propositi, le polpette e il pistacchio, e non si potrebbe parlare, pasticciare, pazzeggiare…”.
Questo passaggio racchiude il nucleo del racconto e dell’intera raccolta, perché mostra, in modo assolutamente efficace e per niente scontato, come l’unicità e la diversità siano fondamentali e come ognuno occupi un proprio ruolo nel mondo, che, proprio perché diverso dagli altri, è speciale. .


Per maggiori informazioni sul libro, Il pescatore di frottole.

lunedì 3 aprile 2017

"Ad bestias", recensione di Alice Torreggiani

«Mentre la zia lo riportava a casa, Michelino ebbe la sensazione che il suo corpo e la sua anima fossero due entità separate. Il corpo stava bene, ma l’anima era malata e gli faceva male. Non capiva dove, perché l’anima non aveva una forma, ma gli faceva male. […] Era come se la sua mente fosse rimasta bloccata in un certo momento di quel pomeriggio, e ora dovesse forzatamente imparare a funzionare in un modo nuovo e discordante da ogni meccanismo conosciuto». Michelino è un bambino di sei anni che, proprio all’inizio del romanzo, è costretto ad affrontare un forte trauma, un evento che lo porta a dover abbandonare il proprio stato di innocenza e a sentirsi in dovere di crescere, prendendo il posto di adulti che di adulto hanno solo l’aspetto e che non riescono a capire il suo dolore, né aiutarlo.  

Michelino mostra una spiccata fantasia e una passione per creare mondi e personaggi immaginari, in cui si immerge e con i quali interagisce con un realismo tale da renderli quasi veritieri agli occhi del lettore, sempre in bilico tra mondo fattuale e mondo onirico-fantastico. La difficoltà di tracciare un confine tra ciò che è reale è ciò che non lo è costituisce una delle principali caratteristiche del romanzo di Mario Corte, Ad bestias. È anche l’espediente attraverso cui si fa luce sull’interiorità dei personaggi, che si presenta come un intricato gomitolo di vizi e perversioni, di segreti e profonde mancanze, che si materializzano sotto forma di visioni, incubi e apparizioni, talvolta uscendo dal surreale per approdare nel reale. Si potrebbe parlare di realismo magico, tanto è pronunciata la sovrapposizione tra questi due livelli.



Questo non accade solo a Michelino, ma anche agli altri personaggi, in particolare Jole, la nonna paterna, colei che tiene o pretende di tenere le redini delle sorti dei propri figli. Il bambino è infatti l’occhio attraverso cui veniamo introdotti nella famiglia. Una famiglia straziata, non solo dalla scomparsa del figlio maggiore, morto durante la guerra, ma anche dalle avversioni e dal desiderio di vendetta e di prevaricazione che lega i suoi membri. I loro rapporti non si fondano sull’affetto, ma su un sistema di reciproca necessità di uno nei confronti dell’altro e, allo stesso tempo, di profondo odio e risentimento che questa necessità causa. La morte di Antonio ha lasciato un evidente vuoto, che nessuno degli altri figli riesce a colmare.
Il pater familias, Tommaso, è poco più che un’ombra, una presenza appena abbozzata che non ha la forza di arginare la prepotenza della moglie. Trascorre il suo tempo cercando di creare un medicinale prodigioso in grado di farlo ringiovanire e permettergli di tornare a recitare a teatro. A imbarcarlo in questa impresa è l’arrivo di Gaspare Senzaterra, misterioso uomo privo d’età, a conoscenza di segreti erboristici e presunto collaboratore del Führer. Senzaterra ricorda Melquíades almeno tanto quanto Tommaso ricorda José Arcadio Buendía, entrambi noti personaggi creati da Gabriel García Márquez in Cent’anni di solitudine, romanzo esponente del realismo magico.
Armando, il secondogenito, è un inetto perennemente indebitato ma adorato dalla madre, che lo ritiene semplicemente perseguitato dalla sfortuna. A sostenere economicamente la famiglia è infatti Mario, unico membro che sembra essere capace di emanciparsi ed essere indipendente dagli altri. Ha un lavoro, una moglie e un figlio, Michelino, che ama ma che non riesce, e non vuole, comprendere: il suo peccato è la cecità di fronte ai sentimenti del bambino, che lo turba e lo infastidisce quando comincia a dare segni di disagio. Si ostina a non voler vedere il suo dolore, perché costituisce un ulteriore problema, di cui non ha bisogno.

Ma il vero motore della famiglia è tutto femminile. Jole e Giunta, madre e figlia, invidiose e vendicatrici, con gli altri e fra di loro. Giunta è l’unica figlia femmina: incapace di tenersi un uomo a lungo, passa la sua vita tra il pettegolezzo e la ricerca di un marito abbiente, ed eredita l’astioso carattere della capofamiglia: «La madre le aveva insegnato tutti i piaceri più perversi: godere era godere dell’umiliazione degli altri, non del rapporto con gli altri, godere era piegare qualcuno come si piega un animale, trinciare la dignità degli altri dicendone tutto il male possibile, fino a fare delle loro anime delle pezze sanguinolente che non hanno più parvenza umana, dei tagli di carne da bollito, che avranno pure una vita loro, ma che devono servire solo da pasto. La madre era una cannibale. E Giunta non voleva essere meglio di lei. Sapeva di esserlo, o se non altro di averne l’aspirazione, ma non voleva. Odiava troppo quella madre per volerla superare, per diventare un essere umano. No: la madre doveva ritrovarsi di fronte esattamente il mostro che aveva creato, non intendeva redimersi per farle un favore».
Jole è invece completamente arida di sentimenti; se ne è liberata, disfatta. Lascia spazio solo all’odio e al risentimento che prova nei confronti del figlio Mario, troppo generoso e incline al perdono, sempre troppo pronto ad amarla: la donna non sopporta le sue qualità, anzi esse sono proprio il motivo per cui lo disprezza e lo ripudia. Ma è un disprezzo che nasconde un forte senso di inadeguatezza e d’inferiorità: lo rifiuta perché non è in grado di eguagliarlo. La sua totale ed esplicita rinuncia ai sentimenti umani la rende una sorta di moderna Lady Macbeth, che si libera della sua parte femminile e pietosa e assume le sembianze di una strega, una creatura della notte. Così accade a Jole, che si spinge fino all’estremo atto d’odio, con l’aiuto di un gruppo di zingare dall’aspetto demoniaco che non possono non ricordare le tre Sorelle Fatali di William Shakespeare. Compaiono nella nebbia di un paesaggio desolato proponendole una soluzione ai problemi che l’affliggono, sempre a metà strada tra finzione e realtà.

Il romanzo si chiude in modo circolare, tornando a un Michelino che è trascinato suo malgrado nel mondo degli adulti e reso partecipe dei vizi di cui è pregno. E il merito di Corte è proprio quello di accompagnare il lettore, in un modo assolutamente crudele e privo di giustificazioni, attraverso le perversioni e le debolezze dell’uomo, messe a nudo anche grazie a un uso misurato e sapiente dell’ironia, che sfiora ogni personaggio rivelandone la vera essenza. La sua natura malefica e bestiale.


Per maggiori informazioni sul romanzo, Ad bestias.