venerdì 12 dicembre 2014

Oltre la superficie dello sguardo. Recensione personale

Premetto che conosco l’autrice dai tempi in cui era ancora una studentessa universitaria. E anche di essere stato uno dei primi ad incitarla a pubblicare questa breve, ma intensa, «delizia letteraria».
Se ben ricordo, era intorno al 1987, e Claudia – mi permetto di utilizzare solo il nome di battesimo – non era convinta, le sembrava un romanzo troppo lacrimevole, «di altri tempi», qualcosa che non avrebbe mai incontrato i gusti del pubblico.
A nulla valsero le mie proteste: per un assurdo puntiglio, o magari per una forma di presunzione al contrario, era convinta di essere l’unica ad amare ancora le storie vere, con dei contenuti emozionali ed emozionanti.
Buttò in un angolo il dattiloscritto – all’epoca non aveva un pc – e smise di pensarci.
Me ne dimenticai anch’io, naturalmente. Fino a questestate, quando venni a sapere che il romanzo non soltanto era stato pubblicato, ma anche messo in scena al Teatro del Bosco di Negrar, presso Verona, con il patrocinio nientemeno di Giulio Brogi (vedi). Non sono potuto andare, purtroppo, ma ho subito ordinato una copia a Vocifuoriscena, curioso di vedere se e come fosse cambiato rispetto alla stesura originale. Pochissime variazioni, quasi impercettibili, del tutto trascurabili: il romanzo era lo stesso, eppure…



Ecco, vorrei parlarvi di questo «eppure».
La prima volta, e parlo di circa venticinque anni fa, mi aveva colpito la freschezza dello stile, quel saper scendere, oserei dire in punta di piedi, nell’intimità di entrambi i protagonisti, senza mai dare l’idea di parteggiare per l’uno o per l’altro. E, soprattutto, ero stato affascinato da Christine, l’esuberanza che faceva da contraltare alla sua rabbia, alla delusione per i rapporti con tutti, dai genitori al fidanzato. Mi era piaciuto il gioco, perché intuivo in Matteo un alter ego di Christine, come se fossero due facce di una stessa medaglia. E il finale mi aveva portato a pensare che si sarebbero ricongiunti…
Posso assicurare che non è a causa delle piccole variazioni, se ho cambiato idea.
Rileggendo il romanzo, anzi, bevendomelo tutto di un fiato, mi sono reso conto che la parte da padrone viene fatta dall’incomunicabilità: Christine e Matteo rappresentano due mondi distinti che cercano un punto di incontro, senza riuscirci. Che la prima a rendersene conto sia lei, la donna, non mi stupisce, oggi. Christine si spaventa, sente che Matteo vuole da lei qualcosa che ai suoi occhi è impossibile: tutta la verità, una condivisione assoluta.
«Cosa credi che vada a fare, a Bologna? Non c’è un altro, se è questo che temi. Solo io, nel mio appartamento, dove vorrei poter… oh, cavolo! Restare sola. Tutto qui.»
Matteo sa chi è lei, lo ha potuto constatare fin dall’inizio, fin dal loro primo incontro, ma spera di cambiarla. Poi la verità che tanto cercava gli giunge tra le mani, in forma di piccole confidenze scritte su dei foglietti, in una lettera, che Christine mai gli avrebbe fatto leggere. 
E qui il tocco di genio dell’autrice: se c’è la verità, non c’è più la persona. Christine è fuggita, introvabile.
Eppure… torniamo su questo «eppure»: se Christine è introvabile per il suo fidanzato, per i genitori, eccola invece a confidarsi con il lettore, a spogliarsi dinanzi a lui di ogni pudore. È al lettore che rivela i suoi dubbi, i tormenti che la accompagnano, a lui che chiede di essere compresa…
E il gioco si complica: Christine, personaggio letterario, può dire tutto di sé a chi la legge, a chi la ascolta oltre le pagine del libro stampato. Il suo monologo interiore è un interrogarsi delicato, lucido, sfiancante e nel contempo necessario: risposte, per noi esseri umani, non ce ne sono, almeno non quelle in grado di placare i tormenti dell’anima, ci sembra dire.
Eppure – di nuovo «eppure» – ecco la sofferta ironia con cui l’autrice congeda il lettore: «Tutto di noi è importante, anche l’attimo sprecato».
Forse non siamo capaci di capire gli altri e neppure noi stessi, ma arrendersi di fronte all’incomunicabilità, sia essa fittizia o effettiva, è il peggiore degli errori, l’unico davvero imperdonabile.
L’happy end è lasciato a chi lo pretende, e il finale è giustamente senza risposta, aperto a ogni interpretazione.

Per eventuali acquisti, rimando alla pagina: Oltre la superficie dello sguardo.

giovedì 4 dicembre 2014

Il titolo è l'ultima cosa. Un giallo metafisico... o meglio, utopistico

Nel 1935 Jorge Luís Borges introdusse la speculazione cosmologica nel poliziesco (in Finzioni, 1935). Nei decenni successivi, la letteratura e i lettori hanno decantato la lezione e oggi, le spalle coperte da sterminate biblioteche di critica letteraria, si può parlare, con la dovuta nonchalance, di “giallo metafisico”. Cliché pressoché indispensabile nel proprio repertorio qualora si frequentino circoli letterari con belle signore disposte a lasciarsi incantare da un sofisticato intellettuale, l’espressione è divenuta talmente comune – nelle recensioni amatoriali, nelle tesi di laurea, nei ritrovi radical-chic – da prestarsi all’abuso e al fraintendimento. 
Ma mentre i critici della domenica tendono ad appuntare la medaglia di METAFISICO a qualsiasi giallo recensiscano (sia poi romanzo d’indagine, poliziesco, hard-boiled o noir), quasi vergognandosi di aver ceduto alla tentazione di leggere della vile letterature di genere, secondo l’illustre argentino – e Borges è stato uno tra i più lucidi interpreti di quella che potremo chiamare una filosofia della letteratura” – la definizione “metafisico” non va al singolo romanzo, ma al genere letterario nel suo complesso. Il giallo ristabilisce l’integrità dell’ordine cosmico, sovvertito dall’irruzione dell’evento delittuoso, attraverso la metafora della risoluzione dell’omicidio e il conseguente riassestamento dello stato di giustizia.
Secondo Borges, dunque, il romanzo giallo è di per sé un romanzo metafisico:

ROMANZO GIALLO ROMANZO METAFISICO

A mio avviso, questa definizione si adatta perfettamente (pur essendone allo stesso tempo tradita, o addirittura rovesciata), all'ultimo romanzo pubblicato da Vocifuoriscena, bello fin dal titolo. E Il titolo, si sa, è l’ultima cosa.



Conosco Claudia Maschio da molti anni e ho ben presente il suo curriculum culturale, che è poi l’unico curriculum che m’interessi, quel mélange di filosofia della scienza, matematica, logica, attenzione per il linguaggio, amore per la letteratura e per l’arte del Novecento (postmoderno e surrealismo in primis), che costituisce il suo côté intellettuale e il punto focale della sua produzione letteraria (e metaletteraria). Quindi, non mi stupisco se il suo primo approccio al “giallo” non si adegui assolutamente alla definizione “debole” del genere, che potremmo stabilire con la stringa

(ROMANZO GIALLO) METAFISICO

ma sia più un 

(ROMANZO METAFISICO) GIALLO

augurandomi che l’uso delle parentesi definisca l’esatta gerarchia degli attributi “giallo” e “metasico” nella mia personale definizione del Titolo è l’ultima cosa. Se questo è un giallo borgesiano, lo è dunque in senso inverso, quasi contromano:

ROMANZO METAFISICO ROMANZO GIALLO 

La metafisica diventa dunque la letteratura gialla per eccellenza (e ogni ricerca di un criminale prelude forse a quel “giallo definitivo” dove riusciremo finalmente a mettere le manette al Colpevole della creazione dell’universo.) 
E qui arriviamo al Titolo è l’ultima cosa, già edito nel 2013, in una veste giallomondadoriana, dalle coraggiose Edizioni PerSempre e oggi ristampato dopo un ulteriore editing da Vocifuoriscena. A una prima lettura, Il titolo si svela come una provocazione filosofica. Un mondo in cui le barzellette – le comuni facezie che si raccontano per strada, a scuola, tra gli amici, sul posto di lavoro – invece di essere un esito della comune attività demopsicologica, vengono create da un’apposita macchina (l’Anecdotomatic, residuo sferragliante e fumante della rivoluzione industriale), per poi essere diffuse tra la popolazione dagli agenti di un fantomatico Ministero della Cultura Popolare, i quali controllano anche se le barzellette siano conformi alle direttive imposte dai burocrati. Già una tale premessa, che rimanda ai tentativi post-rinascimentali di creare una lingua perfetta tramite la permutazione e la combinazione di “enti universali”, dovrebbe far tremare i polsi ai filosofi del linguaggio. 
Il romanzo si svolge negli anni Settanta. L’epoca è stata scelta con oculatezza: ci troviamo appena a valle della crisi del conformismo borghese del decennio precedente (ricordate le esplosioni al rallentatore di Antonioni?) ma a monte della rivoluzione informatica e della digitalizzazione dell’informazione. Insomma, nel punto di disequilibrio tra la fine di un mondo e l’inizio del successivo: alle spalle l’auctoritas delle convenzioni libresche e la rassicurante censura di mamma Rai, di fronte il magma di brodaglie propinate dalle televisioni private e poi da internet

Ma a questo punto ci scontriamo con un anacronismo. La storia ci insegna che il Ministero della Cultura Popolare, istituito dal regime fascista nel 1937, venne sciolto verso la fine della Seconda guerra mondiale. La contraddittoria presenza di questo ingombrante istituto governativo nel 1977 – anno in cui si svolge la vicenda – getta sull’intero romanzo una sfumatura sinistra (e di sinistra). Il puzzle, apparentemente composto dalla lettura metafisica, si scompone di nuovo, mostrando imprevisti ordini di difficoltà. Un solo genere letterario non basta a contenere Il titolo è l’ultima cosa: oltre a quella di giallo metafisico proporrei l’etichetta di romanzo (anti)utopistico. Non vi vedo solo Simenon, Chesterton e Camilleri, ma anche Orwell, con la sua neolingua, Bordewijk e Zamjatin.
Ed è appunto passando per le distopie che arriviamo a Dario Giansanti, il coautore di questo romanzo, che è anch’egli una mia vecchia conoscenza. Ho avuto a che fare con lui grazie al suo progetto di studi mitologici al tempo in cui mi occupavo di saghe e letteratura scaldica. Pur essendo essenzialmente un saggista, Giansanti sa muoversi con sorprendente agilità nello slalom della letteratura come autore: basti vedere i fortunati romanzi del ciclo Agenzia Senzatempo (anch’essi scritti a quattro mani con Claudia Maschio), oppure Mr. Smith va in vacanza, una rivisitazione fantascientifica, ferocemente ironica, della filosofia “ingombrante”, incapace di relazionarsi al mondo. Data la sua attenzione per la narrativa speculativa e per la fantascienza, Giansanti ha dato un contributo certamente importante al Titolo è l’ultima cosa, e posso solo provare a indovinare quali pagine, idee e personaggi siano farina del suo sacco. 
In effetti – e può sembrar ridicolo – nessuno dei due autori ricorda di aver inventato l’Anedoctomatic, anche se entrambi ammettono di aver buttato lì delle idee. Dario Giansanti afferma di aver voluto farne una versione julesverniana dell’Ars magna di Lullo, con un occhio alle ruote combinatorie nel De umbris di Bruno. Claudia Maschio di essere andata a ripescare l’utopia mai realizzata dal Circolo di Vienna. Poi si incolpano l’un l’altro per quella che definiscono “una cavolata, benché costruita bene”. Ma al di là delle scarse concordanze, delle molte connotazioni metafisiche, utopistiche e filosofiche, questo romanzo non dimentica di essere un giallo a tutti gli effetti. 
E che giallo! 
C’è un ricatto, un omicidio, e anche uno spaccio, sebbene di… barzellette false. C’è un colpevole da consegnare alla giustizia. E c’è un detective a tutto tondo, l’iberico Pepe Escamillo Salvado, che se non un seggio meriterebbe almeno uno sgabello nel Walhalla dei grandi investigatori, accanto agli scranni dove stanno assisi Holmes, Poirot, Maigret e Montalbano. Ma la provocazione è subito dietro la porta. Certo è indispensabile consegnare il colpevole alla giustizia (fosse anche per ristabilire l’ordine cosmico, ricordate?), ma l’autentico mystery che attraversa questo libro, a mio avviso, non sta nello svelamento di un banale omicidio. 
Infine, con buona pace di Borges, avendo un po’ di dimestichezza col modus operandi dei nostri due autori, sono certo che né Claudia né Dario abbiano mai inteso collocare il romanzo in un genere letterario ben codificato, né pensato a un target di lettori specializzati. L’unico pubblico che entrambi prediligono è quello dei lettori intelligenti. Hanno fuso le loro rispettive propensioni per la saggistica e per la narrativa al semplice scopo di produrre un romanzo. Il che vuol dire – e qui ci stiamo avvicinando all’etica dello scrivere – una narrazione che, introducendo personaggi e situazioni, produce idee, simboli e significati. 


Altro non serve per una letteratura che sappia regalarti qualcosa di indimenticabile e soprattutto onesto, qualità che molti lettori dimenticano di chiedere quando comprano un libro.

Per informazioni ed eventualmente acquistare il libro al prezzo speciale di € 14.00:


Claudia Maschio • Dario Giansanti

ISBN: 9788890972669
Collana: i Ciottoli
Genere: noir, surreale, umoristico
Edizione: brossura
Pagine: 452
Prezzo: € 16,50

Prezzo Vocifuoriscena: € 14,00