domenica 28 aprile 2024

Il romanzo storico di Jókai Mór

 



Grazie a un progetto di miglioramento della didattica promosso dall'Università degli Studi Padova ho avuto modo di approfondire un autore ungherese che mi ha sempre affascinato: Jókai Mór. Oggi desidero condividere con voi il testo che ho steso per tale attività, confidando di riuscire a tradurre in italiano qualche sua opera.

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Con il romanticismo si accentua il fascino per il passato, l’interesse per la sua rievocazione e ciò contribuisce a porre in primo piano, tra i vari generi letterari della prosa, il romanzo storico. È il periodo in cui questo genere si diffonde in tutta Europa con la fortuna delle opere di Walter Scott che funsero da stimolo e modello anche in Ungheria, dove ebbe lunga fortuna e assorbì l’intento sociale.

Nel genere del romanzo in Ungheria predomina il romanzo storico a tal punto che è possibile coprire tutta la storia ungherese con romanzi: se andassero distrutte tutte le opere storiografiche, la storia ungherese potrebbe essere ricostruita sulla base dei romanzi storici. Ciò implica che gli storiografi devono tenere conto anche delle opere letterarie, in quanto gli autori hanno già compiuto prima di loro un’enorme mole di lavoro per ricostruire le epoche passate.

Se volessimo delineare l’evoluzione di questo genere ottocentesco, dovremmo iniziare da un romanzo sociale, Bélteky-ház (Casa Bélteky, 1832) di Fáy András: attraverso il contrasto tra due generazioni, il suo autore vuole servire la causa delle riforme. Nella figura del padre si trovano riuniti i difetti dell’Ungheria feudale, mentre il figlio incarna le virtù dell’Ungheria in sviluppo. Come primo vero e proprio romanzo storico ungherese si colloca Abafi (1836) di Miklós Jósika che segna l’inizio della sua carriera di romanziere. I romanzi di Jósika sono immersi nell’atmosfera della storia intesa come una bella favola compiuta e hanno come vero protagonista la vicenda stessa che lega i personaggi al loro ambiente. A seguire si colloca l’opera del letterato e ministro dell’istruzione pubblica József Eötvös che trasse dalla storia gli agganci ai problemi sociali del proprio tempo, non proiettando la contemporaneità nel passato, ma dalle vicende passate traendo insegnamenti per la nobiltà affinché provvedesse alle giuste riforme. Tra le sue opere ci limitiamo a menzionare A Karthusi (Il certosino, 1839-1841) che tratta di problemi sociali e nazionali dell’epoca.

La sintesi di tutti questi aspetti e l’apice sia ha nell’opera di Mór Jókai (1825-1904), il romanziere più prolifico della letteratura ungherese, non v’è infatti ungherese che non abbia letto almeno due o tre dei suoi romanzi.


Jókai Mór


Jókai nacque nel 1825 a Komárom e fin dall’età di nove anni iniziò a comporre lirica. Studiò a Pozsony, a Pápa, dove fu compagno del poeta Petőfi Sándor e accanto a lui lo ritroviamo anche nel 1848 allo scoppio della rivoluzione ungherese; anche lui partecipa con il suo ardore giovanile all’epica dell’Ottocento e parte di questo slancio permane anche nella sua opera in temi o entusiasmi ivi espressi.

Si avviò alla carriera forense, ma poi si dedicò interamente alla letteratura e alla politica: diresse riviste e giornali, fu deputato e senatore, direttore di società letterarie. Era tenace anche come lavoratore: si alzava ogni giorno all’alba e fino alle dieci di sera dedicava la maggior parte del suo tempo al lavoro. I francesi lo definirono “una forza della natura”, equiparandolo a Victor Hugo e a Dumas padre. Prima di divenire romanziere fu poeta e commediografo, attività che coltivò anche in seguito, pur limitandosi a mettere in versi solo gli accadimenti a lui coevi più importanti. I critici più severi prediligono Jókai novelliere, in quanto nella forma concisa del racconto non commette errori di caratterizzazione e ambientazione storica e non schiaccia i personaggi con il carico della propria fantasia. Il pubblico invece decretò la maggiore popolarità dei suoi romanzi. Anche le numerose traduzioni ne testimoniano la vasta diffusione: nel mercato librario tedesco ne furono vendute circa un milione di copie fino alla prima guerra mondiale. Le sue opere vennero tradotte in numerose lingue, venendo accolte anche in America; fa eccezione l’Italia che fu una delle ultime nazioni a conoscere l’opera del nostro romanziere. Jókai coltivò ogni genere di romanzo per dare libero sfogo alla sua inventiva e alla sua vena di narratore. Anziché dedicarsi al vero e proprio romanzo storico preferì coltivare una terza tipologia che potremmo definire “a cornice”, perché quanto più lontana è la vicenda dal punto di vista spazio-temporale, tanto maggiore è lo spazio d’inventiva di cui gode la sua fantasia, che potrà distaccarsi maggiormente dalla realtà. Nel collocare nella cornice storica vicende e personaggi scaturiti dalla sua fantasia, Jókai si riserva invero una notevole libertà di manovra, sostenendo che il romanziere può essere indipendente dallo storico, quindi, talvolta, anche infedele: è questo forse l’aspetto più caratteristico del “romanzo storico” jókiano.

L’elemento cardine del romanzo jókiano è il popolo. Ma non sono le singole figure, i singoli personaggi a destare l’interesse dello scrittore, ma piuttosto il popolo nel suo insieme. Per Jókai il bene e il male non ammettono sfumature. Ne consegue che i suoi personaggi sono tagliati con l’accetta, i buoni e i cattivi si fronteggiano senza alcuna possibilità di commistione. Ciò rende facile e schematica la lettura dei suoi romanzi e in ciò sta forse la chiave del grande successo popolare riscosso da subito da Jókai in Ungheria, ma anche all’estero.

Tra le centinaia delle sue opere (oltre trecento), ci limitiamo a menzionare quelle più note e lette ancora oggi. Alcune riguardano il periodo della dominazione turca in Ungheria: Erdély aranykora (I tempi d’oro della Transilvania), Törökvilág Magyarországon (Mondo turco in Ungheria). Altri riguardano il periodo delle riforme come Egy magyar nábob (Un nababbo ungherese), affresco della vita sociale in Ungheria nel primo quarto del xix secolo, e Kárpáthy Zoltán che ne costituisce il prosieguo. Altri, i migliori, riguardano un’epoca più recente: Az új földesúr (Il nuovo proprietario terriero) esalta la forza di assimilazione e attrazione della nazione ungherese (infatti fu tradotto in italiano con il titolo Fascino magiaro). La vicenda si svolge nel periodo più duro dell’assolutismo del 1849: il nuovo proprietario terriero è un generale austriaco che, quotidianamente in contatto con il popolo ungherese, finisce per condividerne il desiderio d’indipendenza e ad attuare assieme la cosiddetta resistenza passiva. Questi tre romanzi potrebbero essere chiamati “semistorici” perché l’autore mette in risalto il carattere storico degli accadimenti, senza che tuttavia siano già passati alla storia: nel riferirli si basa sulla propria esperienza diretta e sulla testimonianza dei contemporanei, pertanto a caratterizzarli è l’equilibrio tra osservazione e fantasia. Alla guerra del 1848-1849 il nostro romanziere dedica il romanzo A köszívű ember fiai (I figli dell’uomo dal cuore di pietra, 1869).

Le aperture democratiche, collegate all’onnipresente tematica nazionale, diventano più spiccate nelle opere successive. In Fekete gyemántok (Diamanti neri, 1870) la sua visuale si sposta sulla forza del nascente capitalismo alleato dell’oppressore austriaco. Altra denuncia del capitalismo è presente in Az aranyember (L’uomo d’oro) che l’odierna critica ungherese considera una delle opere migliori non solo di Jókai, ma del periodo detto del realismo (che corrisponde al verismo italiano). In Jókai il realismo si manifesta principalmente come descrizione e valutazione di elementi del folklore e trova massima espressione in Sárga rózsa (La rosa gialla), che costituisce probabilmente il capolavoro della sua vecchiaia: con la sua ambientazione nella puszta, esprime al meglio l’anima popolare ungherese che traspare dalle tradizioni, usanze sociali e dai costumi.

Non mancano nella sua produzione temi estranei all’Ungheria, in cui parla di tempi e territori lontani, talvolta irreali, dove libero da ogni problematica Jókai si abbandona alla gioia del narrare e dell’inventare. Tipico in questo caso è A két Trenk (I due Trenk) che ha per protagonisti due cugini, due baroni tedeschi. Sembra scritto da un regista cinematografico per la grande inventiva e potrebbe essere un precursore del genere western. Nel corso degli anni Cinquanta dell’Ottocento l’autore nutrì uno spiccato interesse per la storia antica e il destino delle tribù magiare che si credeva fossero rimaste nella protopatria (őshaza) asiatica. Si innesta in questo filone il romanzo breve intitolato A Varchoniták (I varchonitai, 1852): il popolo chiamato varchonita è situato nel favoloso territorio di aranyhegyek (i “monti d’oro”) ed è con ogni probabilità stato ripreso dall’opera in sei volumi dello storico inglese Edward Gobbin (1737-1794), The decline and fall of the Roman Empire (1776-1789) dove si fa menzione di siffatto popolo stanziato in Asia. Jókai dimostra di essere anche un grande conoscitore delle ataviche tradizioni ungheresi connesse al táltos, ovvero allo sciamano magiaro: prova di ciò è fornita nel suo romanzo storico Bálványosvár (La fortezza di Bálványos, 1883), ambientato nel Medioevo ungherese, dove nel capitolo XIX, intitolato Az elrejtőzött (Il nascosto) ricorre al termine elrejtőzik per denotare la condizione estatica in cui operava il táltos o, in genere il sapiente degli antichi magiari; vi ritroviamo invero un’affermazione che compare anche nelle testimonianze etnografiche raccolte dalla voce del popolo, ovvero «Ő nem halt meg, csak el van rejtőzve!» («Non è morto, si è solo nascosto!»).

Tra le ricostruzioni storiche ve ne sono alcune che riguardano l’Italia, come il romanzo Egy az Isten (C’è un dio solo, tradotto in italiano con il titolo Quelli che amano una volta, Fiume 1898) che si svolge a Roma nel 1848 in cui coglie le analogie tra il ’48 italiano e quello ungherese. Venne molto spesso nel nostro Paese, rimanendone ogni volta incantato. Era affascinato da Verona, dalla costa napoletana e soprattutto da Firenze, in merito alla quale scrisse: «Fossi pittore o scultore o architetto, lascerei disperato Firenze, come uno che è innamorato di una donna straniera e sa che mai la potrà far sua».

Jókai è in grado di rinnovare e trasformare anche la tematica più usuale e quotidiana. Il suo linguaggio ha una fluidità attraente che si conserva in tutte le sue opere. Per questo con lui il romanzo diviene la letteratura di tutti: scrive per il popolo, compiendo nella prosa l’aggancio diretto con la fantasia e l’emotività del popolo che Petőfi aveva realizzato nella lirica.

 

 

Bibliografia

Ruzicska 1963. Paolo Ruzicska, Storia della letteratura ungherese, Nuova Accademia Editrice, Milano.

Tempesti 1969. Folco Tempesti, La letteratura ungherese, Sansoni – Accademia, Milano.

Ventavoli 2004. Storia della letteratura ungherese (2 voll.), a cura di Bruno Ventavoli, Lindau, Torino.


giovedì 21 dicembre 2023

Frau Holda e le dodici notti



Nelle leggende popolari Frau Holda (anche Hulda, Holle, Hulle, Frau Holl) appare come un essere sempre bendisposto verso gli uomini e che si arrabbia quando nota disordini in famiglia. Viene presentata come una creatura celeste che cinge il mondo: a tal proposito si dice che quando nevica sia Frau Holda che scuote le cortine del suo letto, facendo volare sulla terra le piume, rappresentate dai fiocchi di neve.


Si credeva che Holda adorasse occupare i
laghi e le fontane: a mezzogiorno poteva, infatti, essere vista sotto le sembianze di una splendida donna dalla carnagione chiara, fare il bagno nella corrente, per poi scomparire.

Per raggiungere il suo regno, i mortali devono passare attraverso un pozzo. Questo motivo è presente anche nell’omonima fiaba Frau Holle facente parte delle Kinder- und Hausmärchen dei Gebrüder Grimm: la fanciulla cade nel pozzo per recuperare il rocchetto cadutole e giunge in una bella pianura con migliaia di fiori e illuminata dal sole. La ragazza serve fedelmente Frau Holle fino a quando sente nostalgia per la propria famiglia. Prima di tornare a casa, Frau Holle la porta davanti a un portone e, quando si apre, la fanciulla viene sommersa da una pioggia d’oro.

Holda si sposta per mezzo di un carro: come Perchta, si fa aiutare da un contadino per aggiustare il mezzo inserendo un perno, e i trucioli caduti a terra diventano oro. Durante la sua processione annuale, che ha luogo nel corso delle dodici notti quando a regnare è il soprannaturale, essa si aggira per il paese portando fertilità al suolo. Holda viene concepita anche come colei che è in grado di cavalcare i venti, seminando il terrore, e quindi assimilata al wütendes Heer (la “schiera furiosa”). Ne consegue la credenza che le streghe cavalchino in compagnia di Holda. Di questa schiera furiosa, secondo una credenza popolare molto diffusa, fanno parte anche i bambini morti senza essere battezzati: non essendo divenuti cristiani, sono caduti nelle mani delle divinità pagane. Holle-peter (anche Hersche, Harsche, Hescheklas, Ruprecht, Rupper) è il nome del servitore imbacuccato che si aggira nel corteo di Holda al solstizio d’inverno. Al suo fianco Holda ha anche degli spiriti benevoli chiamati holden, popolo sotterraneo silenzioso di cui si dice sia la principessa.



A differenza di Holda, Perchta ha un giorno, e in particolare una notte, a lei dedicata: si tratta della cosiddetta Perchtennacht, la notte dell’Epifania. Durante tale festività devono essere consumati porridge e pesce, onde evitare la sua ira. Qualora giungendo al banchetto in suo onore non trovasse nulla di avanzato, provvede a mettere in atto la sua vendetta: a chiunque abbia preso parte alla gozzoviglia, squarcia il ventre, lo riempie con pezzetti di paglia e lo richiude servendosi di un vomere come ago e di una catena di ferro come filo.

Come Holda, anche Berchta veglia sulle filatrici e se passando per i filatoi l’ultimo giorno dell’anno, trova del lavoro incompiuto, provvede a rovinarlo. Tra le fiabe popolari raccolte da Wolfgang Börner, nel territorio compreso tra la Germania e la Croazia, si narra che durante la Perchtennacht, Perchta esamina i filatoi di tutto il vicinato e lascia alle filatrici dei rocchetti vuoti con l’ordine di riempirli in brevissimo tempo, altrimenti le avrebbe punite attorcigliando e insudiciando la fibra di lino. Nella medesima occasione avrebbe tagliato il ventre a chi quel giorno non avesse mangiato zemmede (piatto povero che consisteva in un impasto di farina di grano saraceno cotto in acqua salata e poi saltato in padella con grasso oppure burro), rimosso l’altro cibo consumato e riempito lo spazio con fieno, paglia, mattoni e poi ricucito.

In altri racconti, Perchte appare al crocevia a coloro che durante quella notte si trovano per strada. Le narrazioni sono molto simili: il carro di Perchte è rotto e necessita di essere riparato, perciò chiede al pover’uomo di preparare un cuneo da inserire nel suo carro, invitandolo poi a mettersi in tasca i trucioli formatisi durante la riparazione. Una volta giunto a casa, essi diventato oro, il dono di Perchta.

Altrove si narra che sempre durante la Perchtennacht, Perchta con il suo stuolo di bambini, chi spingendo a fatica un aratro, chi trasportando attrezzi agricoli, si imbatte in una giovane filatrice che, vedendo questa strana processione, scoppia a ridere. Perchta va su tutte le furie, si avvicina alla ragazza e, con un soffio, le toglie la vista. La poverella trova a fatica la strada per il ritornare al villaggio e da quel momento inizia a condurre una vita misera, in quanto non potendo più svolgere il suo lavoro, è costretta a sedere lungo il ciglio della strada e mendicare. L’anno seguente Perchta appare nuovamente alla ragazza: quest’ultima non riconoscendola, le chiede l’elemosina, al che Perchta le risponde con grazia che l’anno prima le aveva tolto la vista, ma quella volta avrebbe restituito la luce ai suoi giovani occhi. 

L'origine del Krampus

 


Oggi vorrei portarvi con me tra le vallate delle Alpi orientali e in Südtirol per scoprire le antiche origini delle usanze connesse all’Avvento e alle dodici notti. In queste zone, San Nicola viene aiutato nelle sue funzioni da un Krampus che minaccia i bambini discoli con la verga oppure li infila nel suo “Kraxn”, un grande cesto che porta sulle spalle. Il Krampus si muove, facendo un grande e pauroso fracasso con le catene e i campanacci appesi al suo corpo. Ma qual era anticamente la sua funzione?




Quando in novembre i giorni divenivano sempre più corti e la nebbia, concepita come un insieme di Nebelgeister (“spiriti della nebbia”), invadeva le vallate e diveniva sempre più freddo, si credeva che i Wintergeister (“spiriti dell’inverno”) fossero giunti per prendere il sopravvento sugli uomini. Fu pertanto ideata una figura che, producendo rumori spaventosi e attraverso il suo aspetto e comportamento selvaggi, fosse in grado di combattere contro questi spiriti e di ricacciare l’inverno nei monti da cui si credeva provenisse. Essa prese il nome di Krampus, sebbene la designazione possa variare notevolmente da zona a zona: in Baviera, nella zona a ridosso delle Alpi, esso prende il nome di “Kramperl” che significherebbe “Krampus più piccolo”; in Germania è noto come Knecht Ruprecht, aiutante di San Nicola, ma anche come Knecht Nikolaus, Nickel, Pelznickel, Pelzmäntelchen, Hans Muff, Hans Trab, mentre a Merano viene chiamato Tuifltog. Sono state addotte svariate ipotesi circa l’etimologia del termine Krampus: esso potrebbe derivare dall’antico tedesco “Krampe” (“artiglio”), essere connesso a un termine che nei dialetti bavaresi identifica ciò che è “privo di vita”, “rinsecchito”.... L’etimologia del termine è tuttora incerta.

La funzione originaria del Krampus doveva consistere nello scacciare gli spiriti dell’inverno e portare fortuna e fertilità. A quest’ultima allude la sua verga di legno di betulla con il laccio rosso con cui originariamente sfiorava le persone: la betulla è, infatti, l’unica pianta ad avere le gemme anche in inverno e costituisce, pertanto, un simbolo della vita che rifiorisce. I campanacci appesi al suo corpo servivano per produrre un suono squillante che avrebbe fatto allontanare i Wintergeister. Nel comune austriaco di Landeck il passaggio di San Nicola e dei Krampus è sempre associato ai cortei del König Winter (“Re inverno”) e ai suoi spiriti aiutanti: la sfilata si conclude con un combattimento inscenato tra i Krampus, König Winter e i suoi spiriti aiutanti, il che ricorda l’originaria mansione del Krampus.

 


Con l’avvento del cristianesimo il Krampus acquisì sembianze animalesche e venne accostato al diavolo. Dall’inizio del XIII secolo e fino alla definitiva scomparsa dell’Inquisizione alla fine del XVIII, l’usanza del Krampus fu proibita: a nessuno era concesso vestirsi da diavolo, pena la morte. Ciononostante questa usanza invernale fu portata avanti in alcune vallate alpine impervie e difficilmente accessibili e dalla metà dal XVII secolo il Krampus fu cristianizzato, divenendo così l’accompagnatore di San Nicola.

In molte regioni la figura del Krampus si è confusa con la Perchte per alcuni tratti comuni, sebbene le differenze tra i due non siano poche. Vediamo di delineare assieme le principali.

LE FUNZIONI. Come accennato, il Krampus impersonava l’essere mitico che doveva aiutare gli uomini a scacciare l’inverno che avanzava. La Perchte rappresentava invece la minaccia costituita dalle forze incontrollabili della natura. Con la cristianizzazione essa venne equiparata al garzone del diavolo, inviato per acciuffare le anime dei dannati e impartire loro una punizione.

Il PERIODO. Il Krampus era attivo durante il periodo dell’Avvento, mentre la Perchte compariva compariva nel corso delle cosiddette Rauhnächte, ovvero le dodici notti che intercorrono tra Natale e l’Epifania.

LA MASCHERA. Entrambe le figure indossavano una maschera grezza e massiccia fatta di legno (in Südtirol veniva usato principalmente il legno di cembro), di colore scuro e completata da enormi zanne.

LE CORNA. Entrambi avevano corna di capri e montoni, ma, mentre il Krampus portava una sola coppia di corna, la Perchte ne presentava due o tre paia, che le servivano per acchiappare e infilzare le anime dei dannati.

LA PELLICCIA. La pelliccia del Krampus era di colore scuro, tendente al nero, e costituita da un vello di pecora oppure di capra. Il Krampus che accompagnava San Nicola ne indossava una di bianca, in quanto costituiva il simbolo del suo pentimento. La pelliccia della Perchte era, invece, chiara, di colore bianco naturale e macchiato.

LA CODA. La coda della Perchte era formata da una oppure due code di cavallo delle quali si serviva per punire, picchiando, gli uomini cattivi. Il Krampus aveva al massimo una coda di mucca oppure di cavallo.



domenica 10 dicembre 2023

Canti sciamanici e usanze natalizie in Ungheria

 


Il regölés è un'usanza popolare ungherese di ringraziamento e propiziazione della fertilità, preservata fino al giorno d'oggi presso alcune comunità della zona del Transdanubio sud-occidentale. Il momento centrale di tale usanza è il 26 dicembre, giorno di santo Stefano, ma in talune zone si estende fino a capodanno; in tale occasione, gruppi di giovanotti vanno di casa in casa a cantare regösénekek [1], passando dapprima dalle case delle ragazze e ricevendo qualche dono in cambio del loro augurio, considerato dotato di forza magica. L’esibizione avveniva nelle stanze o all’esterno, sotto la finestra. Il termine regölés è di origine ugrofinnica e può essere messo in relazione con l'estasi sciamanica. 



Il caratteristico verso «haj, regö rejtem» conserva ancora traccia dell’antico paganesimo ungherese ed è stato oggetto di numerosi studi nel corso dei secoli, al fine di comprenderne la semantica originaria, oggi del tutto oscurata. Si è in genere concordi sul fatto che si tratterebbe del verso magico di cui anticamente il táltos (lo sciamano magiaro) si serviva per l'espletamento della propria mansione. Designerebbe pertanto l'attività di «incantare servendosi del canto», «incantare quanto viene menzionato nel canto». Ecco un esempio:

Egyöttünk, egyöttünk Szent István szolgáji,    
régi szokás szerint szabad még tartanyi,         
haj rege rejtem! Majd neked ejtem.                 
 
Regöjjünk, regöjjünk a házi gazdának            
egy hold földet.                                                
Az egy hold földön száz kepe buzát,                
száz kepe rozsot, száz kepe árpát,                    
haj rege rejtem! Majd neked ejtem.                 

Siamo venuti, siamo venuti, i servitori di santo Stefano,
come di antico uso, se ci è concesso,
ehi, ti incanto con il canto! Lo intonerò per te.

Cantiamo, cantiamo per il padrone di casa
un campo di terra.
Su questo campo di terra cento covoni di grano,
cento covoni di segale, cento covoni d’orzo,
ehi, ti incanto con il canto! Lo intonerò per te.

La copiosa presenza di interiezioni (haj!, hej!) confermerebbe che si tratta di canti usanti durante una cerimonia sciamanica: alla stregua dello sciamano siberiano, anche il táltos ungherese si sarebbe servito di esclamazioni per invocare gli spiriti che lo avrebbero coadiuvato durante il viaggio siderale. 

Chi prende parte al regölés prende il nome di regös, termine che secondo i linguisti e gli studiosi di preistoria ungherese si riferirebbe allo sciamano ungherese, erede degli antichi táltosok. I membri di questi gruppi non indossavano maschere, ma si imbrattavano il volto con la cenere e talvolta si attaccavano dei mustacchi. Anticamente indossavano una pelliccia a rovescio e recavano in mano un tipico bastone da pastore fornito di tre o quattro anelli metallici appesi a mo’ di sonaglio (csörgőbot, letteralmente bastone sonaglio”, o láncosbot, bastone a catena”). Tradizionalmente per fare rumore si munivano di köcsögduda, uno strumento musicale membranofono a frizione equiparabile al putipù (o cupa-cupa) caratteristico della musica popolare dell’Italia meridionale. In Transilvania e nella provincia di Udvarhely, la sera di Natale gruppi di scapoli e uomini sposati si recavano a cantare il regösének alle case degli sposi novelli. 



Il regösének ha gradualmente perso il suo significato originario, tanto che i regösök stessi lo eseguono ormai semplicemente per la bellezza della melodia e il piacere del ritmo allitterante del testo, più che per la sua semantica. Con il tempo è divenuto sempre più un canto di corteggiamento, volto a propiziare l’unione coniugale tra il ragazzo e la ragazza menzionati nel testo.



[1] Termine con sui si designano i canti impiegati in tale frangente. Il sostantivo è composto da regös (nome attribuito a chi partecipa a tali cortei) ed ének ("canto", pl. énekek).


Bibliografia

Andrásfalva Bertalan, Balassa Iván, et. al., Magyar néprajzi lexikon ["Enciclopedia etnografica ungherese"] (5 voll.), Akadémiai Kiadó, Budapest 1982 (https://mek.oszk.hu/02100/02115/html/index.html).

Diószegi Vilmos, A pogány magyarok hitvilága ["Il patrimonio di credenze dei magiari pagani"], Akadémiai kiadó, Budapest 1967 (ed. it. 2023, La religione dei magiari pagani, a cura di Elisa Zanchetta, Vocifuoriscena, Viterbo).

Dömötör Tekla, Régi és mai magyar népszokások ["Usanze popolari ungheresi antiche e odierne"], Néprajz mindenkinek, 3, Tankönyvkiadó, Budapest 1986.


venerdì 8 dicembre 2023

Il culto di santa Lucia in Ungheria

 


Traducendo la monografia dell'etnologo ungherese Diószegi Vilmos intolata A pogány magyarok hitvilága (lett. "Il patrimonio delle credenze dei magiari pagani"; tit. it. La religione dei magiari pagani), ho avuto modo di approfondire il folklore e i riti popolari ungheresi, molti dei quali da me finora conosciuti solo superficialmente. 


Diószegi Vilmos, La religione dei magiari pagani

Diószegi si dedicò in primis alla disamina comparata dello sciamanismo ungherese, raffrontandolo con i corrispondenti fenomeni altaici e siberiani che aveva avuto modo di studiare durante le sue cinque spedizioni etnografiche in Turchia, Siberia e Mongolia. Verso la fine della sua vita, il suo interesse virò verso le usanze connesse al giorno di santa Lucia (szent Luca in ungherese), in quanto la sua figura si è intrecciata con quella della strega (boszorkány in ungherese), la quale può essere riconosciuta dalle corna che ha sul capo. Si tratto di un tratto sciamanico, originariamente caratteristico del táltos (lo sciamano ungherese), successivamente associato a streghe e stregoni magiari. 

Santa Lucia presenta sfaccettature talmente numerose e incredibilmente interessanti per il suo legame con il paganesimo ungherese, che oggi vorrei parlarvene, presentandovi i materiali impiegati per redigere il glossario alla summenzionata pubblicazione.


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Accanto all’immagine cristiana della santa, in Ungheria sopravvive una sorta di Lucia “maligna”, nota nelle fonti medievali come Luca (sempre derivante dal latino lux), nome che conosceva diverse varianti locali, quali Lucapuca, Luccá (nel villaggio di Hollókő, provincia di Nógrád). Luca era così temuta che, fino a epoche recenti, si evitò di assegnare il suo nome alle neonate, per timore che potessero essere da lei rapite o che risultasse di cattivo auspicio. Giunto nel Paese intorno al IX-X secolo, il culto di Luca si è intrecciato con i rituali connessi alla propiziazione della fertilità che si tenevano nel periodo del solstizio invernale; parimenti la sua figura è andata ad arricchire le schiere di esseri demoniaci che nella concezione comune si aggiravano in queste oscure nottate. Nella notte di szent Luca, ritenuta la più buia dell’anno, si temeva il ritorno dei morti sulla terra. In tale frangente si era soliti nascondere le scope in modo che Luca, immaginata come una strega, non le utilizzasse per spostarsi. Numerosi erano i divieti da osservare, pena punizioni esemplari o danni al bestiame. Severamente proibite erano le occupazioni femminili, in quanto Luca avrebbe punito la massaia incurante del divieto, per esempio picchiandola, pietrificandola, o tramutando in cenere il pane appena sfornato. A Tápiószentmárton (provincia di Pest) si diceva che chi usciva di casa la notte a lei dedicata sarebbe stato aggredito dal maiale nero” di Luca, una delle sembianze zoomorfe a lei associate.

Tradizionalmente Luca assume l’aspetto di uccello, pollo o maiale, animali che ben simboleggiano il suo legame con la fertilità e il mondo contadino. Ampiamente diffuso è il kotyolás (anche palázolás o heverés), rituale apotropaico eseguito dalle massaie, solitamente allo scoccare della mezzanotte del 13 dicembre, e che consiste nel percuotere i polli; essi vengono in seguito monitorati per i successivi dodici giorni, uno per ciascun mese del nuovo anno, al fine di trarre vaticinii circa gli accadimenti venturi. Il termine kotyolás o lucázás (“atteggiarsi da Luca”) si riferisce a un’usanza diffusa nella zona del Transdanubio meridionale e occidentale: all’alba del giorno di santa Lucia, piccoli gruppetti di bambini andavano di casa in casa e, dopo essersi inginocchiati e aver chiesto il permesso, si sedevano su ceppi o paglia che avevano portato con loro e iniziavano a intonare canti per augurare prosperità, abbondanza e buon raccolto. I canti iniziavano con formule quali «Luca-Luca kity-kotty, tojjanak a tiktyok, luggyok» (“Luca, Luca, coccodè, che le galline e le oche depongano uova!”), oppure «kity-koty-kity-koty», espressione onomatopeica che riproduce il verso della chioccia e da cui deriva il termine kotyoló (letteralmente “[colui] che fa coccodè”), che identifica i bambini che prendevano parte a tale rito. La padrona di casa spruzzava i bambini con dell’acqua e versava su di loro dei chicchi di granturco o frumento: il tutto veniva poi raccolto e utilizzato per dare da bere e da mangiare alle oche e alle galline. Dopo aver cantato e recitato le formule, i bambini provvedevano a spargere la paglia per la cucina e poi attendevano che la donna porgesse loro qualche dono che poteva consistere in frutta secca, mele o noci. La paglia sarebbe in seguito stata raccolta e posta nei luoghi in cui galline e oche deponevano le uova, al fine di favorirne una maggiore produzione. Nel caso in cui i bambini non avessero ricevuto nulla in cambio, avrebbero inveito contro la donna, dicendole che sarebbe nato un sol pulcino e pure cieco.

Kotyolás o lucázás

Sporadiche sono invece le attestazioni relative al lucajárás (“passaggio di Luca”), raccolte nel Palócföld, il territorio abitato dai palócok, nell’Ungheria nord-orientale: qui Luca figura in vesti bianche, con il volto celato da una maschera parimenti bianca, e pertanto viene detta anche fehér asszony (la “donna bianca”). Talvolta ci si travestiva da Luca mettendosi in testa un velo bianco e andando a trovare i bambini, premiando i buoni e punendo i cattivi.

Lucajárás

La più nota usanza ungherese connessa al giorno di santa Lucia consisteva nell’intagliare il lucaszék (la “sedia di Luca”): si trattava di un trespolo ricavato da nove diversi tipi di legno (prugnolo selvatico, ginepro, pero, corniola, acero, acacia, abete bianco, cerro e rosa), realizzato a partire dal 13 dicembre e ultimato alla vigilia di Natale. Proprio per questa usanza di intagliare il lucaszék un po’ al giorno, si è diffuso il modo di dire «Lassan keszül, mint a Luca széke» (“Si prepara lentamente come la sedia di Luca”). Secondo la credenza, se colui che aveva fabbricato la sedia la portava all’incrocio di due vie o alla messa di mezzanotte, e vi saliva sopra, poteva individuare le streghe del villaggio, in quanto avevano sul capo delle corna o una piuma. Di conseguenza le streghe cercavano di acciuffare chi le aveva individuate: il fuggiasco, correndo verso casa, doveva lasciare dietro di sé dei semi che le streghe si fermavano inevitabilmente a raccogliere e, così facendo, lasciandogli il tempo di sfuggire alle loro grinfie. Una volta a casa, il lucaszék doveva essere bruciato.


Lucaszék

Molto importante era anche il periodo che precedeva il giorno della santa, nel corso del quale si svolgevano svariati riti magici, eseguiti soprattutto da donne, volti a prevedere il futuro. L’usanza voleva che gli uomini a partire dal giorno di santa Lucia osservassero le condizioni meteorologiche per un periodo di dodici giorni: si supponeva, infatti, che il tempo del primo giorno (14 dicembre) avrebbe simboleggiato le condizioni atmosferiche del primo mese dell’anno, il tempo del secondo giorno (15 dicembre), le condizioni del secondo mese, e via discorrendo. Questi dodici giorni costituivano il cosiddetto Luca kalendáriuma (il “calendario di Luca”). In Transilvania con tale espressione si denota tuttora una pratica con cui i székelyek strappavano dodici strati da una cipolla, li cospargevano di sale e li tenevano in osservazione: gli strati su cui il sale si scioglieva indicavano i mesi piovosi, gli altri sarebbero stati asciutti.

Molti riti legati a Luca si protraggono fino al periodo natalizio. Uno di questi prende il nome di Luca-búza vetése (la semina del frumento di Luca”): la sera della vigilia di santa Lucia, o il giorno stesso, questo “frumento” veniva seminato dalle donne in un piatto riempito con acqua e terriccio, che veniva messo accanto al camino; per la vigilia di Natale il frumento sarebbe già cresciuto di 8-10 cm, divenendo così simbolo del Natale: veniva infatti chiamato anche karácsonyi búza (il “frumento natalizio”). Particolare attenzione veniva posta nell’annaffiarlo correttamente, in quanto il modo in cui il frumento germogliava preannunciava come sarebbe stato il raccolto dell’anno a venire, e pure indicava la prosperità e il benessere della famiglia e del bestiame. Passate le festività natalizie, si era soliti usare questo frumento per dare da mangiare al pollame e ai bovini, al fine di favorire il loro moltiplicarsi, conservarli in salute e prevenire i malanni che li potevano colpire. 

I più importanti riti di questo periodo avevano tuttavia luogo nel cuore pulsante dell’abitazione, ovvero in cucina. Qui, il giorno di santa Lucia si preparavano i gombócok, grandi gnocchi di patate, o altri piccoli dolci, solitamente in numero di dodici o tredici. Ognuno di essi conteneva il nome di un pretendente delle fanciulle, le quali dovevano sceglierne uno per trovarvi il nome del futuro sposo; l’ultimo che rimaneva sarebbe stato il promesso della figlia della padrona di casa. Simile usanza avveniva con i Luca-cédulák (i bigliettini di Luca”): a partire dal 13 dicembre se ne bruciava uno, senza leggere il nome che vi era scritto sopra, e l’ultimo avrebbe contenuto il nome dello sposo voluto dal destino. Nelle previsioni matrimoniali rientrava anche il maiale, in quanto si credeva di poter apprendere la volontà di Luca andando a “bussare” al tettuccio della porcilaia: se il suino grugniva di rimando, allora il numero dei suoi versi avrebbe indicato gli anni di attesa del futuro sposo; se non si riscontrava alcuna reazione, lo sposalizio sarebbe stato imminente.

Era opinione comune che Luca prevedesse anche la morte delle persone: nel Transdanubio meridionale e orientale si era soliti preparare i cosiddetti tollaspogácsák (pogácsák piumati”, noti anche come Lucapogácsák, pogácsák di santa Lucia”), focaccine nelle quali, prima di essere infornate, veniva infilzata una piuma, ognuna delle quali corrispondeva a un congiunto o a un amico. Ultimata la cottura, le focaccine venivano attentamente controllate dai membri della famiglia: la piuma bruciata stava a indicare che la persona simboleggiata sarebbe dipartita l’anno a seguire.



Bibliografia

Andrásfalva Bertalan, Balassa Iván, et. al., Magyar néprajzi lexikon ["Enciclopedia etnografica ungherese"] (5 voll.), Akadémiai Kiadó, Budapest 1982 (https://mek.oszk.hu/02100/02115/html/index.html).

Dömötör Tekla, Régi és mai magyar népszokások ["Usanze popolari ungheresi antiche e odierne"], Néprajz mindenkinek, 3, Tankönyvkiadó, Budapest 1986.

Rózsnyoi Zsuzsanna, La metamorfosi di santa Lucia nella letteratura e nei riti popolari ungheresi, in Sciamani, letterati e artisti. Dalla Lapponia al cuore dell’Europa, a cura di Giorgia Ferrari e Sanna Maria Martin, pp. 163-228, Aracne, Roma 2016.


giovedì 23 novembre 2023

Lo scrivere per amore di Massimo Totola

 


Massimo Totola è tante cose: musicista, attore, regista, poeta. In quale di questi “ruoli” ti riconosci maggiormente?

Potrei dire che mi riconosco più come attore di teatro, regista di teatro... ma fondamentalmente mi riconosco in tutto ciò che provo a fare, come in ciò che sono, credo di essere. Diciamo che in ogni cosa che faccio cerco di tirar fuori quel che sento il bisogno di esprimere. In una parola, forse, mi definirei “creatore”. E libero... sicuramente: ciò che provo a fare lo faccio con sincerità, perché ci credo, appunto, e quindi in assoluta Libertà espressiva.

Quali sono il tuo più grande pregio e il tuo più grande difetto?

Devo proprio rispondere?
Mi viene in mente, così su due piedi, di pensare al riguardo che… amo. Amo tantissimo. E non so se sia un pregio e/o un difetto.


Per Tracce ǝ Ombre hai pubblicato la raccolta Avremmo dovuto trovare il tempo necessario. Era la prima volta che scrivevi poesie?

Scrivo da sempre. Più che “scrivere” direi che “metto nero su bianco”, come si dice, pensieri... immagini... in una forma che magari assomiglia a una sorta di poesia. Senza regole. Le conoscerei anche le regole della scrittura poetica, ma per il concetto di Libertà di cui sopra, ho bisogno di non averne. E questa non è necessariamente o volutamente una scelta. Solo non tengo conto delle regole... non ci penso proprio.

Che importanza ha per te scrivere?

Parlo spesso da solo.
Scrivere forse è più elegante.

Avremmo dovuto trovare il tempo necessario. Come mai questo titolo?

Avremmo dovuto trovare il tempo necessario è un insieme di pensieri rispetto a un momento sicuramente fondamentale della mia vita. Una sorta di rinascita, grazie all’incontro di una donna... Incontro reciproco, o così era, che mi ha sconvolto l’esistenza... letteralmente e in tutti i sensi!
Una parentesi, comunque, che si è aperta e probabilmente si è pure chiusa, di un Amore condiviso per un po’, e poi diciamo meno... o in una modalità “diversa”, che sinceramente non ho mai capito bene cosa fosse/sia.
Ma a chi è innamorato follemente probabilmente non tutte le modalità, lo stare in un modo o in un altro, possono sembrare comprensibili.
Io so che questo Amore vive ancora, e lo porterò per sempre dentro di me.
Poi, se sarà ricondiviso bene, altrimenti tutto ciò che provo e che credo, rispetto a questa Donna, nessuno me lo toglie, nessuno o nessuna lo potrà sostituire, per nessuno o nessuna proverò mai più ’sto stare...

Qual è il messaggio principale contenuto nel tuo libro?

Il messaggio, i messaggi, sono forse, che “bruciare il tempo” per paura di perdersi non serve. Che prima di dire cose bisogna avere il tempo necessario per considerare ciò che si dice, perché poi le parole io credo restano. Che prima bisognerebbe avere il tempo necessario per pensarci...
E poi è un bell’insieme di parole, che credo/penso valga la pena di leggere.

Cosa vuol dire, a tuo parere, avere successo come scrittore?

Non so bene cosa voglia dire “scrittore”, ma non so bene nemmeno cosa voglia dire “avere successo”.
Il mio successo consiste nel sapere che i miei pensieri son piaciuti e son stati degni di una pubblicazione, e che in qualche modo ho sfatato il mio “problema di essere innamorato follemente” facendo leggere ad altri ’sti miei pensieri.
E, se vogliamo, il mio successo sta/starà, perché ci sto ancora lavorando, nel davvero chiuderla, quella parentesi amorosa, e poi vedere che accadrà.
Non vorrei chiudere-chiudere un qualsiasi sia rapporto, chiaro, ma... grazie.