giovedì 21 dicembre 2023

Frau Holda e le dodici notti



Nelle leggende popolari Frau Holda (anche Hulda, Holle, Hulle, Frau Holl) appare come un essere sempre bendisposto verso gli uomini e che si arrabbia quando nota disordini in famiglia. Viene presentata come una creatura celeste che cinge il mondo: a tal proposito si dice che quando nevica sia Frau Holda che scuote le cortine del suo letto, facendo volare sulla terra le piume, rappresentate dai fiocchi di neve.


Si credeva che Holda adorasse occupare i
laghi e le fontane: a mezzogiorno poteva, infatti, essere vista sotto le sembianze di una splendida donna dalla carnagione chiara, fare il bagno nella corrente, per poi scomparire.

Per raggiungere il suo regno, i mortali devono passare attraverso un pozzo. Questo motivo è presente anche nell’omonima fiaba Frau Holle facente parte delle Kinder- und Hausmärchen dei Gebrüder Grimm: la fanciulla cade nel pozzo per recuperare il rocchetto cadutole e giunge in una bella pianura con migliaia di fiori e illuminata dal sole. La ragazza serve fedelmente Frau Holle fino a quando sente nostalgia per la propria famiglia. Prima di tornare a casa, Frau Holle la porta davanti a un portone e, quando si apre, la fanciulla viene sommersa da una pioggia d’oro.

Holda si sposta per mezzo di un carro: come Perchta, si fa aiutare da un contadino per aggiustare il mezzo inserendo un perno, e i trucioli caduti a terra diventano oro. Durante la sua processione annuale, che ha luogo nel corso delle dodici notti quando a regnare è il soprannaturale, essa si aggira per il paese portando fertilità al suolo. Holda viene concepita anche come colei che è in grado di cavalcare i venti, seminando il terrore, e quindi assimilata al wütendes Heer (la “schiera furiosa”). Ne consegue la credenza che le streghe cavalchino in compagnia di Holda. Di questa schiera furiosa, secondo una credenza popolare molto diffusa, fanno parte anche i bambini morti senza essere battezzati: non essendo divenuti cristiani, sono caduti nelle mani delle divinità pagane. Holle-peter (anche Hersche, Harsche, Hescheklas, Ruprecht, Rupper) è il nome del servitore imbacuccato che si aggira nel corteo di Holda al solstizio d’inverno. Al suo fianco Holda ha anche degli spiriti benevoli chiamati holden, popolo sotterraneo silenzioso di cui si dice sia la principessa.



A differenza di Holda, Perchta ha un giorno, e in particolare una notte, a lei dedicata: si tratta della cosiddetta Perchtennacht, la notte dell’Epifania. Durante tale festività devono essere consumati porridge e pesce, onde evitare la sua ira. Qualora giungendo al banchetto in suo onore non trovasse nulla di avanzato, provvede a mettere in atto la sua vendetta: a chiunque abbia preso parte alla gozzoviglia, squarcia il ventre, lo riempie con pezzetti di paglia e lo richiude servendosi di un vomere come ago e di una catena di ferro come filo.

Come Holda, anche Berchta veglia sulle filatrici e se passando per i filatoi l’ultimo giorno dell’anno, trova del lavoro incompiuto, provvede a rovinarlo. Tra le fiabe popolari raccolte da Wolfgang Börner, nel territorio compreso tra la Germania e la Croazia, si narra che durante la Perchtennacht, Perchta esamina i filatoi di tutto il vicinato e lascia alle filatrici dei rocchetti vuoti con l’ordine di riempirli in brevissimo tempo, altrimenti le avrebbe punite attorcigliando e insudiciando la fibra di lino. Nella medesima occasione avrebbe tagliato il ventre a chi quel giorno non avesse mangiato zemmede (piatto povero che consisteva in un impasto di farina di grano saraceno cotto in acqua salata e poi saltato in padella con grasso oppure burro), rimosso l’altro cibo consumato e riempito lo spazio con fieno, paglia, mattoni e poi ricucito.

In altri racconti, Perchte appare al crocevia a coloro che durante quella notte si trovano per strada. Le narrazioni sono molto simili: il carro di Perchte è rotto e necessita di essere riparato, perciò chiede al pover’uomo di preparare un cuneo da inserire nel suo carro, invitandolo poi a mettersi in tasca i trucioli formatisi durante la riparazione. Una volta giunto a casa, essi diventato oro, il dono di Perchta.

Altrove si narra che sempre durante la Perchtennacht, Perchta con il suo stuolo di bambini, chi spingendo a fatica un aratro, chi trasportando attrezzi agricoli, si imbatte in una giovane filatrice che, vedendo questa strana processione, scoppia a ridere. Perchta va su tutte le furie, si avvicina alla ragazza e, con un soffio, le toglie la vista. La poverella trova a fatica la strada per il ritornare al villaggio e da quel momento inizia a condurre una vita misera, in quanto non potendo più svolgere il suo lavoro, è costretta a sedere lungo il ciglio della strada e mendicare. L’anno seguente Perchta appare nuovamente alla ragazza: quest’ultima non riconoscendola, le chiede l’elemosina, al che Perchta le risponde con grazia che l’anno prima le aveva tolto la vista, ma quella volta avrebbe restituito la luce ai suoi giovani occhi. 

L'origine del Krampus

 


Oggi vorrei portarvi con me tra le vallate delle Alpi orientali e in Südtirol per scoprire le antiche origini delle usanze connesse all’Avvento e alle dodici notti. In queste zone, San Nicola viene aiutato nelle sue funzioni da un Krampus che minaccia i bambini discoli con la verga oppure li infila nel suo “Kraxn”, un grande cesto che porta sulle spalle. Il Krampus si muove, facendo un grande e pauroso fracasso con le catene e i campanacci appesi al suo corpo. Ma qual era anticamente la sua funzione?




Quando in novembre i giorni divenivano sempre più corti e la nebbia, concepita come un insieme di Nebelgeister (“spiriti della nebbia”), invadeva le vallate e diveniva sempre più freddo, si credeva che i Wintergeister (“spiriti dell’inverno”) fossero giunti per prendere il sopravvento sugli uomini. Fu pertanto ideata una figura che, producendo rumori spaventosi e attraverso il suo aspetto e comportamento selvaggi, fosse in grado di combattere contro questi spiriti e di ricacciare l’inverno nei monti da cui si credeva provenisse. Essa prese il nome di Krampus, sebbene la designazione possa variare notevolmente da zona a zona: in Baviera, nella zona a ridosso delle Alpi, esso prende il nome di “Kramperl” che significherebbe “Krampus più piccolo”; in Germania è noto come Knecht Ruprecht, aiutante di San Nicola, ma anche come Knecht Nikolaus, Nickel, Pelznickel, Pelzmäntelchen, Hans Muff, Hans Trab, mentre a Merano viene chiamato Tuifltog. Sono state addotte svariate ipotesi circa l’etimologia del termine Krampus: esso potrebbe derivare dall’antico tedesco “Krampe” (“artiglio”), essere connesso a un termine che nei dialetti bavaresi identifica ciò che è “privo di vita”, “rinsecchito”.... L’etimologia del termine è tuttora incerta.

La funzione originaria del Krampus doveva consistere nello scacciare gli spiriti dell’inverno e portare fortuna e fertilità. A quest’ultima allude la sua verga di legno di betulla con il laccio rosso con cui originariamente sfiorava le persone: la betulla è, infatti, l’unica pianta ad avere le gemme anche in inverno e costituisce, pertanto, un simbolo della vita che rifiorisce. I campanacci appesi al suo corpo servivano per produrre un suono squillante che avrebbe fatto allontanare i Wintergeister. Nel comune austriaco di Landeck il passaggio di San Nicola e dei Krampus è sempre associato ai cortei del König Winter (“Re inverno”) e ai suoi spiriti aiutanti: la sfilata si conclude con un combattimento inscenato tra i Krampus, König Winter e i suoi spiriti aiutanti, il che ricorda l’originaria mansione del Krampus.

 


Con l’avvento del cristianesimo il Krampus acquisì sembianze animalesche e venne accostato al diavolo. Dall’inizio del XIII secolo e fino alla definitiva scomparsa dell’Inquisizione alla fine del XVIII, l’usanza del Krampus fu proibita: a nessuno era concesso vestirsi da diavolo, pena la morte. Ciononostante questa usanza invernale fu portata avanti in alcune vallate alpine impervie e difficilmente accessibili e dalla metà dal XVII secolo il Krampus fu cristianizzato, divenendo così l’accompagnatore di San Nicola.

In molte regioni la figura del Krampus si è confusa con la Perchte per alcuni tratti comuni, sebbene le differenze tra i due non siano poche. Vediamo di delineare assieme le principali.

LE FUNZIONI. Come accennato, il Krampus impersonava l’essere mitico che doveva aiutare gli uomini a scacciare l’inverno che avanzava. La Perchte rappresentava invece la minaccia costituita dalle forze incontrollabili della natura. Con la cristianizzazione essa venne equiparata al garzone del diavolo, inviato per acciuffare le anime dei dannati e impartire loro una punizione.

Il PERIODO. Il Krampus era attivo durante il periodo dell’Avvento, mentre la Perchte compariva compariva nel corso delle cosiddette Rauhnächte, ovvero le dodici notti che intercorrono tra Natale e l’Epifania.

LA MASCHERA. Entrambe le figure indossavano una maschera grezza e massiccia fatta di legno (in Südtirol veniva usato principalmente il legno di cembro), di colore scuro e completata da enormi zanne.

LE CORNA. Entrambi avevano corna di capri e montoni, ma, mentre il Krampus portava una sola coppia di corna, la Perchte ne presentava due o tre paia, che le servivano per acchiappare e infilzare le anime dei dannati.

LA PELLICCIA. La pelliccia del Krampus era di colore scuro, tendente al nero, e costituita da un vello di pecora oppure di capra. Il Krampus che accompagnava San Nicola ne indossava una di bianca, in quanto costituiva il simbolo del suo pentimento. La pelliccia della Perchte era, invece, chiara, di colore bianco naturale e macchiato.

LA CODA. La coda della Perchte era formata da una oppure due code di cavallo delle quali si serviva per punire, picchiando, gli uomini cattivi. Il Krampus aveva al massimo una coda di mucca oppure di cavallo.



domenica 10 dicembre 2023

Canti sciamanici e usanze natalizie in Ungheria

 


Il regölés è un'usanza popolare ungherese di ringraziamento e propiziazione della fertilità, preservata fino al giorno d'oggi presso alcune comunità della zona del Transdanubio sud-occidentale. Il momento centrale di tale usanza è il 26 dicembre, giorno di santo Stefano, ma in talune zone si estende fino a capodanno; in tale occasione, gruppi di giovanotti vanno di casa in casa a cantare regösénekek [1], passando dapprima dalle case delle ragazze e ricevendo qualche dono in cambio del loro augurio, considerato dotato di forza magica. L’esibizione avveniva nelle stanze o all’esterno, sotto la finestra. Il termine regölés è di origine ugrofinnica e può essere messo in relazione con l'estasi sciamanica. 



Il caratteristico verso «haj, regö rejtem» conserva ancora traccia dell’antico paganesimo ungherese ed è stato oggetto di numerosi studi nel corso dei secoli, al fine di comprenderne la semantica originaria, oggi del tutto oscurata. Si è in genere concordi sul fatto che si tratterebbe del verso magico di cui anticamente il táltos (lo sciamano magiaro) si serviva per l'espletamento della propria mansione. Designerebbe pertanto l'attività di «incantare servendosi del canto», «incantare quanto viene menzionato nel canto». Ecco un esempio:

Egyöttünk, egyöttünk Szent István szolgáji,    
régi szokás szerint szabad még tartanyi,         
haj rege rejtem! Majd neked ejtem.                 
 
Regöjjünk, regöjjünk a házi gazdának            
egy hold földet.                                                
Az egy hold földön száz kepe buzát,                
száz kepe rozsot, száz kepe árpát,                    
haj rege rejtem! Majd neked ejtem.                 

Siamo venuti, siamo venuti, i servitori di santo Stefano,
come di antico uso, se ci è concesso,
ehi, ti incanto con il canto! Lo intonerò per te.

Cantiamo, cantiamo per il padrone di casa
un campo di terra.
Su questo campo di terra cento covoni di grano,
cento covoni di segale, cento covoni d’orzo,
ehi, ti incanto con il canto! Lo intonerò per te.

La copiosa presenza di interiezioni (haj!, hej!) confermerebbe che si tratta di canti usanti durante una cerimonia sciamanica: alla stregua dello sciamano siberiano, anche il táltos ungherese si sarebbe servito di esclamazioni per invocare gli spiriti che lo avrebbero coadiuvato durante il viaggio siderale. 

Chi prende parte al regölés prende il nome di regös, termine che secondo i linguisti e gli studiosi di preistoria ungherese si riferirebbe allo sciamano ungherese, erede degli antichi táltosok. I membri di questi gruppi non indossavano maschere, ma si imbrattavano il volto con la cenere e talvolta si attaccavano dei mustacchi. Anticamente indossavano una pelliccia a rovescio e recavano in mano un tipico bastone da pastore fornito di tre o quattro anelli metallici appesi a mo’ di sonaglio (csörgőbot, letteralmente bastone sonaglio”, o láncosbot, bastone a catena”). Tradizionalmente per fare rumore si munivano di köcsögduda, uno strumento musicale membranofono a frizione equiparabile al putipù (o cupa-cupa) caratteristico della musica popolare dell’Italia meridionale. In Transilvania e nella provincia di Udvarhely, la sera di Natale gruppi di scapoli e uomini sposati si recavano a cantare il regösének alle case degli sposi novelli. 



Il regösének ha gradualmente perso il suo significato originario, tanto che i regösök stessi lo eseguono ormai semplicemente per la bellezza della melodia e il piacere del ritmo allitterante del testo, più che per la sua semantica. Con il tempo è divenuto sempre più un canto di corteggiamento, volto a propiziare l’unione coniugale tra il ragazzo e la ragazza menzionati nel testo.



[1] Termine con sui si designano i canti impiegati in tale frangente. Il sostantivo è composto da regös (nome attribuito a chi partecipa a tali cortei) ed ének ("canto", pl. énekek).


Bibliografia

Andrásfalva Bertalan, Balassa Iván, et. al., Magyar néprajzi lexikon ["Enciclopedia etnografica ungherese"] (5 voll.), Akadémiai Kiadó, Budapest 1982 (https://mek.oszk.hu/02100/02115/html/index.html).

Diószegi Vilmos, A pogány magyarok hitvilága ["Il patrimonio di credenze dei magiari pagani"], Akadémiai kiadó, Budapest 1967 (ed. it. 2023, La religione dei magiari pagani, a cura di Elisa Zanchetta, Vocifuoriscena, Viterbo).

Dömötör Tekla, Régi és mai magyar népszokások ["Usanze popolari ungheresi antiche e odierne"], Néprajz mindenkinek, 3, Tankönyvkiadó, Budapest 1986.


venerdì 8 dicembre 2023

Il culto di santa Lucia in Ungheria

 


Traducendo la monografia dell'etnologo ungherese Diószegi Vilmos intolata A pogány magyarok hitvilága (lett. "Il patrimonio delle credenze dei magiari pagani"; tit. it. La religione dei magiari pagani), ho avuto modo di approfondire il folklore e i riti popolari ungheresi, molti dei quali da me finora conosciuti solo superficialmente. 


Diószegi Vilmos, La religione dei magiari pagani

Diószegi si dedicò in primis alla disamina comparata dello sciamanismo ungherese, raffrontandolo con i corrispondenti fenomeni altaici e siberiani che aveva avuto modo di studiare durante le sue cinque spedizioni etnografiche in Turchia, Siberia e Mongolia. Verso la fine della sua vita, il suo interesse virò verso le usanze connesse al giorno di santa Lucia (szent Luca in ungherese), in quanto la sua figura si è intrecciata con quella della strega (boszorkány in ungherese), la quale può essere riconosciuta dalle corna che ha sul capo. Si tratto di un tratto sciamanico, originariamente caratteristico del táltos (lo sciamano ungherese), successivamente associato a streghe e stregoni magiari. 

Santa Lucia presenta sfaccettature talmente numerose e incredibilmente interessanti per il suo legame con il paganesimo ungherese, che oggi vorrei parlarvene, presentandovi i materiali impiegati per redigere il glossario alla summenzionata pubblicazione.


***

Accanto all’immagine cristiana della santa, in Ungheria sopravvive una sorta di Lucia “maligna”, nota nelle fonti medievali come Luca (sempre derivante dal latino lux), nome che conosceva diverse varianti locali, quali Lucapuca, Luccá (nel villaggio di Hollókő, provincia di Nógrád). Luca era così temuta che, fino a epoche recenti, si evitò di assegnare il suo nome alle neonate, per timore che potessero essere da lei rapite o che risultasse di cattivo auspicio. Giunto nel Paese intorno al IX-X secolo, il culto di Luca si è intrecciato con i rituali connessi alla propiziazione della fertilità che si tenevano nel periodo del solstizio invernale; parimenti la sua figura è andata ad arricchire le schiere di esseri demoniaci che nella concezione comune si aggiravano in queste oscure nottate. Nella notte di szent Luca, ritenuta la più buia dell’anno, si temeva il ritorno dei morti sulla terra. In tale frangente si era soliti nascondere le scope in modo che Luca, immaginata come una strega, non le utilizzasse per spostarsi. Numerosi erano i divieti da osservare, pena punizioni esemplari o danni al bestiame. Severamente proibite erano le occupazioni femminili, in quanto Luca avrebbe punito la massaia incurante del divieto, per esempio picchiandola, pietrificandola, o tramutando in cenere il pane appena sfornato. A Tápiószentmárton (provincia di Pest) si diceva che chi usciva di casa la notte a lei dedicata sarebbe stato aggredito dal maiale nero” di Luca, una delle sembianze zoomorfe a lei associate.

Tradizionalmente Luca assume l’aspetto di uccello, pollo o maiale, animali che ben simboleggiano il suo legame con la fertilità e il mondo contadino. Ampiamente diffuso è il kotyolás (anche palázolás o heverés), rituale apotropaico eseguito dalle massaie, solitamente allo scoccare della mezzanotte del 13 dicembre, e che consiste nel percuotere i polli; essi vengono in seguito monitorati per i successivi dodici giorni, uno per ciascun mese del nuovo anno, al fine di trarre vaticinii circa gli accadimenti venturi. Il termine kotyolás o lucázás (“atteggiarsi da Luca”) si riferisce a un’usanza diffusa nella zona del Transdanubio meridionale e occidentale: all’alba del giorno di santa Lucia, piccoli gruppetti di bambini andavano di casa in casa e, dopo essersi inginocchiati e aver chiesto il permesso, si sedevano su ceppi o paglia che avevano portato con loro e iniziavano a intonare canti per augurare prosperità, abbondanza e buon raccolto. I canti iniziavano con formule quali «Luca-Luca kity-kotty, tojjanak a tiktyok, luggyok» (“Luca, Luca, coccodè, che le galline e le oche depongano uova!”), oppure «kity-koty-kity-koty», espressione onomatopeica che riproduce il verso della chioccia e da cui deriva il termine kotyoló (letteralmente “[colui] che fa coccodè”), che identifica i bambini che prendevano parte a tale rito. La padrona di casa spruzzava i bambini con dell’acqua e versava su di loro dei chicchi di granturco o frumento: il tutto veniva poi raccolto e utilizzato per dare da bere e da mangiare alle oche e alle galline. Dopo aver cantato e recitato le formule, i bambini provvedevano a spargere la paglia per la cucina e poi attendevano che la donna porgesse loro qualche dono che poteva consistere in frutta secca, mele o noci. La paglia sarebbe in seguito stata raccolta e posta nei luoghi in cui galline e oche deponevano le uova, al fine di favorirne una maggiore produzione. Nel caso in cui i bambini non avessero ricevuto nulla in cambio, avrebbero inveito contro la donna, dicendole che sarebbe nato un sol pulcino e pure cieco.

Kotyolás o lucázás

Sporadiche sono invece le attestazioni relative al lucajárás (“passaggio di Luca”), raccolte nel Palócföld, il territorio abitato dai palócok, nell’Ungheria nord-orientale: qui Luca figura in vesti bianche, con il volto celato da una maschera parimenti bianca, e pertanto viene detta anche fehér asszony (la “donna bianca”). Talvolta ci si travestiva da Luca mettendosi in testa un velo bianco e andando a trovare i bambini, premiando i buoni e punendo i cattivi.

Lucajárás

La più nota usanza ungherese connessa al giorno di santa Lucia consisteva nell’intagliare il lucaszék (la “sedia di Luca”): si trattava di un trespolo ricavato da nove diversi tipi di legno (prugnolo selvatico, ginepro, pero, corniola, acero, acacia, abete bianco, cerro e rosa), realizzato a partire dal 13 dicembre e ultimato alla vigilia di Natale. Proprio per questa usanza di intagliare il lucaszék un po’ al giorno, si è diffuso il modo di dire «Lassan keszül, mint a Luca széke» (“Si prepara lentamente come la sedia di Luca”). Secondo la credenza, se colui che aveva fabbricato la sedia la portava all’incrocio di due vie o alla messa di mezzanotte, e vi saliva sopra, poteva individuare le streghe del villaggio, in quanto avevano sul capo delle corna o una piuma. Di conseguenza le streghe cercavano di acciuffare chi le aveva individuate: il fuggiasco, correndo verso casa, doveva lasciare dietro di sé dei semi che le streghe si fermavano inevitabilmente a raccogliere e, così facendo, lasciandogli il tempo di sfuggire alle loro grinfie. Una volta a casa, il lucaszék doveva essere bruciato.


Lucaszék

Molto importante era anche il periodo che precedeva il giorno della santa, nel corso del quale si svolgevano svariati riti magici, eseguiti soprattutto da donne, volti a prevedere il futuro. L’usanza voleva che gli uomini a partire dal giorno di santa Lucia osservassero le condizioni meteorologiche per un periodo di dodici giorni: si supponeva, infatti, che il tempo del primo giorno (14 dicembre) avrebbe simboleggiato le condizioni atmosferiche del primo mese dell’anno, il tempo del secondo giorno (15 dicembre), le condizioni del secondo mese, e via discorrendo. Questi dodici giorni costituivano il cosiddetto Luca kalendáriuma (il “calendario di Luca”). In Transilvania con tale espressione si denota tuttora una pratica con cui i székelyek strappavano dodici strati da una cipolla, li cospargevano di sale e li tenevano in osservazione: gli strati su cui il sale si scioglieva indicavano i mesi piovosi, gli altri sarebbero stati asciutti.

Molti riti legati a Luca si protraggono fino al periodo natalizio. Uno di questi prende il nome di Luca-búza vetése (la semina del frumento di Luca”): la sera della vigilia di santa Lucia, o il giorno stesso, questo “frumento” veniva seminato dalle donne in un piatto riempito con acqua e terriccio, che veniva messo accanto al camino; per la vigilia di Natale il frumento sarebbe già cresciuto di 8-10 cm, divenendo così simbolo del Natale: veniva infatti chiamato anche karácsonyi búza (il “frumento natalizio”). Particolare attenzione veniva posta nell’annaffiarlo correttamente, in quanto il modo in cui il frumento germogliava preannunciava come sarebbe stato il raccolto dell’anno a venire, e pure indicava la prosperità e il benessere della famiglia e del bestiame. Passate le festività natalizie, si era soliti usare questo frumento per dare da mangiare al pollame e ai bovini, al fine di favorire il loro moltiplicarsi, conservarli in salute e prevenire i malanni che li potevano colpire. 

I più importanti riti di questo periodo avevano tuttavia luogo nel cuore pulsante dell’abitazione, ovvero in cucina. Qui, il giorno di santa Lucia si preparavano i gombócok, grandi gnocchi di patate, o altri piccoli dolci, solitamente in numero di dodici o tredici. Ognuno di essi conteneva il nome di un pretendente delle fanciulle, le quali dovevano sceglierne uno per trovarvi il nome del futuro sposo; l’ultimo che rimaneva sarebbe stato il promesso della figlia della padrona di casa. Simile usanza avveniva con i Luca-cédulák (i bigliettini di Luca”): a partire dal 13 dicembre se ne bruciava uno, senza leggere il nome che vi era scritto sopra, e l’ultimo avrebbe contenuto il nome dello sposo voluto dal destino. Nelle previsioni matrimoniali rientrava anche il maiale, in quanto si credeva di poter apprendere la volontà di Luca andando a “bussare” al tettuccio della porcilaia: se il suino grugniva di rimando, allora il numero dei suoi versi avrebbe indicato gli anni di attesa del futuro sposo; se non si riscontrava alcuna reazione, lo sposalizio sarebbe stato imminente.

Era opinione comune che Luca prevedesse anche la morte delle persone: nel Transdanubio meridionale e orientale si era soliti preparare i cosiddetti tollaspogácsák (pogácsák piumati”, noti anche come Lucapogácsák, pogácsák di santa Lucia”), focaccine nelle quali, prima di essere infornate, veniva infilzata una piuma, ognuna delle quali corrispondeva a un congiunto o a un amico. Ultimata la cottura, le focaccine venivano attentamente controllate dai membri della famiglia: la piuma bruciata stava a indicare che la persona simboleggiata sarebbe dipartita l’anno a seguire.



Bibliografia

Andrásfalva Bertalan, Balassa Iván, et. al., Magyar néprajzi lexikon ["Enciclopedia etnografica ungherese"] (5 voll.), Akadémiai Kiadó, Budapest 1982 (https://mek.oszk.hu/02100/02115/html/index.html).

Dömötör Tekla, Régi és mai magyar népszokások ["Usanze popolari ungheresi antiche e odierne"], Néprajz mindenkinek, 3, Tankönyvkiadó, Budapest 1986.

Rózsnyoi Zsuzsanna, La metamorfosi di santa Lucia nella letteratura e nei riti popolari ungheresi, in Sciamani, letterati e artisti. Dalla Lapponia al cuore dell’Europa, a cura di Giorgia Ferrari e Sanna Maria Martin, pp. 163-228, Aracne, Roma 2016.


giovedì 23 novembre 2023

Lo scrivere per amore di Massimo Totola

 


Massimo Totola è tante cose: musicista, attore, regista, poeta. In quale di questi “ruoli” ti riconosci maggiormente?

Potrei dire che mi riconosco più come attore di teatro, regista di teatro... ma fondamentalmente mi riconosco in tutto ciò che provo a fare, come in ciò che sono, credo di essere. Diciamo che in ogni cosa che faccio cerco di tirar fuori quel che sento il bisogno di esprimere. In una parola, forse, mi definirei “creatore”. E libero... sicuramente: ciò che provo a fare lo faccio con sincerità, perché ci credo, appunto, e quindi in assoluta Libertà espressiva.

Quali sono il tuo più grande pregio e il tuo più grande difetto?

Devo proprio rispondere?
Mi viene in mente, così su due piedi, di pensare al riguardo che… amo. Amo tantissimo. E non so se sia un pregio e/o un difetto.


Per Tracce ǝ Ombre hai pubblicato la raccolta Avremmo dovuto trovare il tempo necessario. Era la prima volta che scrivevi poesie?

Scrivo da sempre. Più che “scrivere” direi che “metto nero su bianco”, come si dice, pensieri... immagini... in una forma che magari assomiglia a una sorta di poesia. Senza regole. Le conoscerei anche le regole della scrittura poetica, ma per il concetto di Libertà di cui sopra, ho bisogno di non averne. E questa non è necessariamente o volutamente una scelta. Solo non tengo conto delle regole... non ci penso proprio.

Che importanza ha per te scrivere?

Parlo spesso da solo.
Scrivere forse è più elegante.

Avremmo dovuto trovare il tempo necessario. Come mai questo titolo?

Avremmo dovuto trovare il tempo necessario è un insieme di pensieri rispetto a un momento sicuramente fondamentale della mia vita. Una sorta di rinascita, grazie all’incontro di una donna... Incontro reciproco, o così era, che mi ha sconvolto l’esistenza... letteralmente e in tutti i sensi!
Una parentesi, comunque, che si è aperta e probabilmente si è pure chiusa, di un Amore condiviso per un po’, e poi diciamo meno... o in una modalità “diversa”, che sinceramente non ho mai capito bene cosa fosse/sia.
Ma a chi è innamorato follemente probabilmente non tutte le modalità, lo stare in un modo o in un altro, possono sembrare comprensibili.
Io so che questo Amore vive ancora, e lo porterò per sempre dentro di me.
Poi, se sarà ricondiviso bene, altrimenti tutto ciò che provo e che credo, rispetto a questa Donna, nessuno me lo toglie, nessuno o nessuna lo potrà sostituire, per nessuno o nessuna proverò mai più ’sto stare...

Qual è il messaggio principale contenuto nel tuo libro?

Il messaggio, i messaggi, sono forse, che “bruciare il tempo” per paura di perdersi non serve. Che prima di dire cose bisogna avere il tempo necessario per considerare ciò che si dice, perché poi le parole io credo restano. Che prima bisognerebbe avere il tempo necessario per pensarci...
E poi è un bell’insieme di parole, che credo/penso valga la pena di leggere.

Cosa vuol dire, a tuo parere, avere successo come scrittore?

Non so bene cosa voglia dire “scrittore”, ma non so bene nemmeno cosa voglia dire “avere successo”.
Il mio successo consiste nel sapere che i miei pensieri son piaciuti e son stati degni di una pubblicazione, e che in qualche modo ho sfatato il mio “problema di essere innamorato follemente” facendo leggere ad altri ’sti miei pensieri.
E, se vogliamo, il mio successo sta/starà, perché ci sto ancora lavorando, nel davvero chiuderla, quella parentesi amorosa, e poi vedere che accadrà.
Non vorrei chiudere-chiudere un qualsiasi sia rapporto, chiaro, ma... grazie.



giovedì 9 novembre 2023

Il sapersi reinventare di Massimo Rubulotta

 

Uno dei primi titoli pubblicati da Tracce ǝ Ombre è stato Cento di 100 di Massimo Rubulotta.
Massimo, ritieni che questa sia una grossa responsabilità?

Altro che! Conosco la curatrice (Claudia Maschio) della casa editrice da tanto di quel tempo che le tracce e anche le ombre delle nostre frequentazioni si perdono tra le mille case dove ognuno di noi ha vissuto, i bar, le strade e la sua macchina per scrivere elettrica, semicomputerizzata (almeno, ricordo avesse una sorta di memoria).
Quello era il perno delle nostre serate. Lei scriveva e io suonavo.
Anch’io scrivevo. Poesie, e a volte lei mi aiutava a mettere i titoli che mi sorprendevano per i punti di vista sempre lontani dai miei, ma che facevano assumere un sapore completamente nuovo alle mie parole.
Le dicevo «Voglio pubblicare un altro libro di poesie», (ne avevo fatto uno pochi anni prima, a vent’anni). Ho sempre scritto poesie.
Lei mi diceva «Sì, le poesie mi piacciono, soprattutto le tue, ma non ho nessuno strumento per valutarle».
La casa editrice ancora non esisteva. Quando Claudia e Dario Giansanti ne hanno fondata una (Vocifuoriscena) sono tornato all’attacco: «Pubblica le mie poesie».
«Ti ho detto che non saprei neanche da che parte prenderle in mano. Però, facciamo così: scrivi un romanzo e mettici dentro una ventina di poesie. Mi sembra un buon compromesso, no?»

Entusiasta della sua proposta cominciai a buttare giù parole e parole che non erano poesie, ma racconti dei miei cani, di musica, pensieri e tutte quelle cose che vanno a comporre un romanzo. Comprese venti poesie. Fu un’esperienza bellissima. Scrivere per raccontare è stupendo.
Ma non poteva bastarmi la pubblicazione di Mai affezionarsi a una ricetta (questo il titolo del romanzo) e dicevo che un libro di poesie sarebbe stato bene nello scaffale della casa editrice.
Ho paura di aver preso la povera donna per sfinimento. Anche se non lo ammetteranno mai, ho il sospetto che abbiano creato la collana “S’i’ fosse foco” solo per farmi stare zitto. Quindi anche di questo mi sento grandemente responsabile, non solo per essere uno dei primi titoli di Tracce ǝ Ombre.

Non è la prima volta che pubblichi un libro. Non ti senti un tantino in colpa?

Mah, forse dovrei. Ma allora dovrei scusarmi con le orecchie di chi ha ascoltato i milioni di note venire fuori dalle mie percussioni.
Non ce la faccio a mettere le mie cose nel cassetto. A suonare di nascosto in cameretta. Ho bisogno di condividere con gli altri quello che sento.
Ho bisogno di far vedere/sentire le mie elaborazioni di ciò che mi circonda.

In Cento di 100 hai scelto la forma narrativa dell’haiku corredato da rispettivo quadro (sempre farina del tuo sacco). C’è una ragione particolare?

Tempo fa sono stato in ospedale a lungo. Circondato da gente che soffriva. Io stesso soffrivo. E soffrivo la mancanza delle mie amate percussioni, della musica che era il mio lavoro, la mia vita.
Avevo un vecchio telefonino che per poter scrivere ero costretto a usare soltanto la tastiera alfanumerica.
L’unica applicazione per scrivere e salvare le mie annotazioni conteneva solo cento caratteri. Cominciai a scrivere costretto a stare entro quel limite.
Avevo deciso che in cento caratteri (non uno di più, non uno di meno) dovevo farci stare le mie osservazioni e il mio pensiero. Era bello studiare il modo di farci stare tutto. Accorciare, allungare, togliere, cambiare frasi. Era un haiku, solo che al posto del monaco Zen c’ero io che cominciavo a misurarmi coi miei nuovi limiti e non scrivevo sul fianco delle montagne, come il monaco, ma su un telefonino dentro un ospedale.
Sempre in quel periodo mi hanno inserito in un percorso che prevedeva l’arteterapia e ho cominciato a dipingere.
Sono rimasto legato ai cento caratteri degli haiku tecnologici e alla pittura che adesso è parte del mio linguaggio.
A volte i titoli dei quadri sono gli haiku. A volte viceversa.

Qual è, a tuo parere, il messaggio principale contenuto nel tuo libro?

Forse che la bellezza è una sola e sono tante allo stesso tempo e, quando si riesce a vederla in tutte le cose che ci circondano, bisogna solo abbandonarsi e cercare di farne parte.
La vita segue tante logiche. Ha infiniti punti di vista. Bisogna sapersi adattare e seguire le strade che ci propone.
Non so perché faccio arte. Non so cosa significhi fare arte e non so cosa vuol dire “arte”. Forse sentire il bisogno forte, incessante di partecipare a quello che vedo; che sento. Sento che un tramonto, il mare, l’alba, la pioggia hanno un messaggio per me (per tutti), ma non riesco a decifrarlo. Però è forte. Avvolgente. Allora provo a usare lo stesso loro linguaggio e li dipingo; li suono. Uso parole per dar loro una forma che sia umana e anche… come definirla? extraumana?
La mia capacità di interazione col mondo si è ridotta del 50% o forse più. Adesso ho pochissime mani, braccia, gambe per esprimermi. Pazienza! Faccio con quello che ho a disposizione. L’importante è non legarsi a quello che si era prima. Cambiare. Sapersi adattare. Come la mia gatta.

Cosa cavolo c’entrano le dieci ricette?

L’idea delle ricette è nata pensando di inserire, assieme agli haiku e le croste, anche la forma d’arte più golosa che esista: la cucina. Per poter leggere, guardare un dipinto e anche masticare con gusto quello che c’è nel libro. Gustarlo nel vero senso del termine.
Volevo fosse Claudia a scriverle, ma non ne capiva il senso o forse non lo trovava sufficientemente letterario. Sentivo, però che il suo non era un “No” a prescindere. Che c’era ancora un margine di discussione.
E allora continuai a perorare la mia causa fino a che le dissi «Magari, invece di ricette vere e proprie, potremmo fare delle prese in giro dei detti tipo “il latte versato”; “se non è zuppa è pan bagnato”; “indorare la pillola” e via dicendo».
Nonostante tutte le nostre conversazioni riguardanti il libro fossero via email, quando lesse della presa in giro dei detti, mi arrivò lo scintillio dei suoi occhi.
Cominciò a scriverle ed erano bellissime. Divertentissime.
La mia idea iniziale, del libro da mangiare, era completamente stravolta ma almeno così alleggerivamo un po’ la pesantezza degli haiku e gli scarabocchi delle cento croste.

Qual è, se c’è, il libro migliore che hai letto, quello che ti ha cambiato la vita?

Tutti i libri che leggo mi cambiano la vita, in un modo o nell’altro ma l’unico che ho letto tre volte (penso quarant’anni fa) è stato Herzog di Saul Bellow.

Cosa vuol dire, secondo te, avere successo come scrittore?

Penso vendere tanti libri. Essere invitati ai festival, fare presentazioni.
La stessa cosa per un musicista. Sostituisci le parole “libri” e “presentazioni” con “dischi” (anche se non si usano più) e “concerti”.
Penso, comunque che ha successo chi ha carisma. A prescindere dal valore di quello che si scrive o si suona.


sabato 4 novembre 2023

Il giallo introspettivo di Franco Ceradini


Franco Ceradini ha di recente pubblicato per Tracce ǝ Ombre il romanzo giallo La lingua di Menelik. Cerchiamo di scoprire qualcosa di più su di lui e sul suo ultimo parto letterario.

Partiamo dalla domanda più difficile: chi è Franco Ceradini?

Difficile parlare di sé. Mi ritengo una persona curiosa, che a sessantotto anni compiuti non smette di indagare e di studiare. 

Chi ti segue come scrittore ti conosce soprattutto come romanziere di ampio respiro, che ama entrare nei personaggi, nelle loro psicologie e peculiarità caratteriali. Cito, a titolo di esempio, Saturnino e le ombre, pubblicato circa dieci anni fa da Vocifuoriscena. Come mai, adesso, il passaggio al genere giallo con La lingua di Menelik?

Il giallo mi ha sempre affascinato. L’incontro con Georges Simenon, qualche anno fa, mi ha convinto a provarci a mia volta. Di Simenon avevo letto qualche Maigret, ma sono stati i suoi romanzi “duri” a conquistarmi, con trame semplici ma con approfondimenti psicologici miracolosi. Un altro autore che mi ha coinvolto è stato Chandler. Il suo Marlowe, a metà fra l’eroe alla John Wayne e il picaro, schiacciato dalle forze avverse e mai morto, incarna bene un lato del carattere americano, spaccone e rude nei modi, ma fragile nel profondo, sempre in pericolo e mai disposto ad arrendersi. 

In generale, mi piace del giallo la possibilità che offre di accoppiare vari elementi. C’è l’inchiesta, la ricerca del colpevole, e c’è la descrizione d’ambiente, la costruzione meticolosa del personaggio. Questi sono gli aspetti della scrittura che ritengo più consoni alla mia sensibilità e le cose che, anche a giudizio di chi mi legge, mi riescono meglio. Diciamo che nei miei gialli c’è ovviamente il delitto e qualcuno che tenta di venirne a capo individuando il colpevole, ma soprattutto c’è il resto. I miei personaggi sono prima di tutto alle prese con i propri problemi. Il giallo non è un genere facile, ci sto lavorando. Spero di riuscire a raggiungere una pienezza di stile nel giro di un paio di altri lavori.


Perché hai ambientato il romanzo in un paesino (fittizio) del Trentino?

Non sarei mai in grado di scrivere qualcosa che fosse ambientato in luoghi che non conosco, con cui non abbia un legame emotivo. Non potrei mai, per dire, scrivere un giallo internazionale, o un romanzo storico. Ci ho anche provato, ma non mi usciva nulla, non c’era sintonia. Il Trentino lo conosco un po’. A Valcava di Segonzano io e mia moglie abbiamo una casetta. È il nostro rifugio, ci sono le nostre cose, lì abbiamo amici, ambiente, atmosfera, tutto quello che ci serve per essere sereni. Quando mi sono sentito pronto per il giallo, mi è venuto spontaneo prendere quei luoghi famigliari come riferimento. La Valsolda del romanzo è ispirata alla Valcava reale. Ma non solo, ho mischiato le carte. Dopo La lingua di Menelik vorrei scrivere ancora qualcosa di “trentino”, ma vediamo. Valpolicella e Verona mi attirano. 

Quanto di autobiografico c’è in Giulio Marcarino, protagonista di La lingua di Menelik?

C’è abbastanza. Come in tutti gli altri personaggi del romanzo, ma in lui di più, ovviamente. Un autore vive nei suoi personaggi ed è ovvio che in ognuno di loro infili qualcosa di sé, inconsapevolmente. Nell’ispettore Giulio Marcarino credo che di mio ci siamo due, tre cose: l’ardore per la verità, una ingenuità di fondo che lui tenta di correggere facendo appello al suo senso critico, la morbidezza del carattere. Mettiamoci anche la testardaggine, con tratti di rigidità. È un uomo con molte risorse, ma irrisolto, tormentato. 

In generale, quando scrivi hai tu il controllo dei personaggi o loro fanno quello che vogliono?

Ho sempre lasciato correre i personaggi, con pochi controlli. Saturnino e le ombre è stato il punto di arrivo del mio vagabondare nella scrittura. All’epoca ero preso dalla lettura della Récherche, e credo si senta. Il passaggio al giallo rappresenta anche il tentativo di mettere ordine, di arrivare a uno stile asciutto e a intrecci con una geometria meno variabile, diciamo così. Sentivo l’esigenza di limiti precisi e nel giallo li ho trovati. Per la stesura di Menelik devo però ringraziare una certa Claudia Maschio, superego implacabile che mi ha tenuto a bada, impedendomi di smarrire la strada (ride). 

Quale dei tuoi personaggi, di questo o precedenti romanzi, vorresti essere e perché? 

Giulio Marcarino. Inesauribile nella ricerca, ma disincantato circa la possibilità di pieno successo; innamorato della giustizia, ma consapevole che i codici non ne esauriscono il campo, che oltre le leggi scritte, lo ius, vi è lo spazio infinito dell’aequitas, che va oltre le regole che l’uomo si è dato.
Detto di Giulio, posso aggiungere che anche tra i vecchi personaggi sicuramente potrei trovare chi mi sia consono. Ma non me li ricordo… (ride

Quanto ti rattrista il vedere un libro trasformato in oggetto di vendita, in merce?

Intendiamoci: sarei felicissimo di vendere un milione di copie di La lingua di Menelik, e credo lo sarebbe anche l’editore. Tutti quelli che scrivono aspirano a essere letti. Il destinatario c’è sempre: anche chi scrive un’autobiografia aspira a un lettore. Ma credo che il riferimento sia ad altro, all’industria che sforna libri come una catena di montaggio. Da qualche anno leggo principalmente gialli e una buona parte di essi, specialmente i best-seller, sono noiosi, ripetitivi. Dopo il primo successo e trovata la chiave, tanti autori non fanno che riproporre lo stesso libro. Si somigliano tutti, non tanto nelle trame, ma nell’intreccio schematico e sempre uguale, nel tipo dei personaggi, disancorati dal contesto sociale, privi di spessore psicologico, stereotipati. Vendono a carrettate, ma non mi piacciono e cerco di evitarli. Ma buon per loro. Devo dire però che in giro ci sono anche dei maestri. Uno di questi è lo scozzese Ian Rankin. Uno scrittore, un giallista formidabile che ho scoperto da poco e che mi sorprende sempre. 

Cosa vuol dire, secondo te, avere successo come scrittore?

Scrivere con uno stile mio, e ci sto arrivando, è già un successo.